giovedì 30 dicembre 2010

Biocapitalismo all'italiana: l'esubero del capitale cognitivo

Si può stabilire un legame tra le inquietudini dei giovani italiani e la proposta di futuro che Marchionne ha offerto agli operai della Fiat nel nostro paese?

L'aspetto più tragico delle proteste di ricercatori e studenti di queste settimane non risiede nella violenza degli scontri o nella drammaticità di una condizione precaria che è diventata un dato strutturale di tante esistenze bensì nell'assenza di una proposta compiutamente biopolitica (nel senso che Foucauld già aveva sviluppato nelle lezioni al College de France nel 1979-80) ai fenomeni che si denunciano.

Vi è, questo sì, la consapevolezza sempre più diffusa che né la colonizzazione del tempo di vita da parte delle attività lavorative né la messa a valore delle proprie risorse cognitive, emotive e relazionali possono garantire, oggi e per il futuro, un ritorno economico capace di soddisfare i bisogni minimi di riproduzione del capitale cognitivo dei soggetti. E molto spesso nemmeno la mera autonomia materiale è possibile con i lavori cognitivi che il mercato italiano offre.

Il bios e la psychè, considerati fattori produttivi a tutti gli effetti, messi sul mercato italiano non riescono poi a generare uno scambio monetario soddisfacente per la parte che li cede.

Si assiste pertanto a una contraddizione in cui sembra inabbissarsi l'intero sviluppo economico del paese: da una parte si cerca di pagare il meno possibile un lavoro ridotto a mero oggetto di comando, quasi uno zoon di cui si compra la forza animale non consapevole, dall'altro tantissime soggettività cognitive che vorrebbero lavorare ad output immateriali attraverso la messa a valore del loro bios e della loro psyche si ritrovano in un contesto economico che non richiede a sufficienza, né in quantità né per qualità, il loro contributo e quindi finisce per pagarlo poco.

La politica si accorge del precariato come se fosse un fenomeno da aggiustare con qualche legge o un po' di crescita del Pil non cogliendo che si tratta invece della conseguenza della crisi del modello sociale e industriale italiano.

Sbaglia dunque chi pensa che il modello di Marchionne sia solo un nuovo modello di relazioni industriali: esso intende a fortiori delineare un modello di sopravvivenza per una intera nazione nell'epoca della globalizzazione. Che i costi di questa sopravvivenza debbano essere ripartiti nella società secondo logiche di mera redditività aziendale a Marchionne è chiarissimo. Non invece alla politica italiana, che si schiera a favore o contro sulla base di schemi ideologici superati. La destra vive tutto come una grande revanche contro il sindacalismo italiano di sinistra, un atto simbolico, come il successo della Thatcher sui minatori, capace di disarticolare l'avversario nelle sue basi sociali. La sinistra, anche quando vede lucidamente legami tra comando politico e comando dell'impresa come Giorgio Cremaschi (nel recente Il regime dei padroni, da Berlusconi a Marchionne), inciampa in meccanismi mentali e terminologie retrodatate: usare il termine padrone rievoca un'epoca in cui due chiare soggettività confliggevano in un contesto nazionale.

Oggi invece anche ogni Marchionne di turno deve fare i conti con una logica aziendale transnazionale che si può accettare o no ma cambiare poco o punto. Ed è qui che la politica vive la sua crisi, nella sua incapacità di elaborare risposte transnazionali a modelli biocapitalistici che attraversano nazioni e continenti. Non si tratta dunque di importare in Italia dagli USA un welfare compassionevole di stampo calvinista al posto dello stato sociale frutto del compromesso fordista-keynesiano, come scrive oggi Massimo Giannini su Repubblica, poiché nella logica della filiera del valore mondiale un paese in declino come l'Italia deve adattarsi ad avere meno in termini di diritti. Punto.

E nemmeno si tratta di una classica contrapposizione tra produzioni labour intensive o (cognitive) capital intensive, poiché nell'economia della conoscenza non vi può essere un'attività labour intensive che non preveda anche un forte investimento nel capitale cognitivo dei soggetti che la realizzano. Si parte invece dall'assunto che i due modelli, quello dell'individualismo anglosassone e quello dell'economia della conoscenza almeno propagandato dall'Unione Europea, non possano essere più applicati all'Italia e pertanto bisogna gestire un downsizing dei diritti di cittadinanza economica e sociale, conseguenza della marginalità del nostro paese.

Marchionne ha capito questo e si comporta in maniera coerente. Anche le fasce più consapevoli del sindacato lo hanno capito. Si oppongono come possono ma rinviare al passato è un modo per esonerarsi dalle sfide del presente.

Parlare di economia della conoscenza in un tale contesto nazionale finisce per avere ben poco senso, almeno fino a quando non verrà sviluppata una biopolitica capace di offrire nuovi spazi e nuove risposte a menti e corpi sotto scacco.

giovedì 23 dicembre 2010

Flattr non convince

Flattr è un nuovo servizio di micropagamenti sociali che prova a compensare i contenuti pubblicati online. Ci si impegna a versare a Flattr una quota mensile (anche solo 2 euro) e poi cliccandone il loghino che appare sotto i post o altri contenuti digitali si distribuiscono i soldi, premiando i contenuti più interessanti. La società svedese trattiene poi il 10% a titolo di contributo spese.
Questo sistema potrebbe funzionare se un numero davvero considerevole degli utenti web (diciamo almeno 3 milioni, lo 0,01% di una utenza mondiale pari oggi a 3 miliardi di esseri umani) abbracciasse l'idea e se un numero altrettanto considerevole di produttori di contenuti digitali originali si associasse al progetto. Possibile che 3 milioni di persone nel mondo accettino di pagare un minimo di 2 euro al mese? Se pur capitasse questo caso (troppo ottimista per essere reale), avremo 6 milioni di euro da distribuire su decine di milioni di contenuti. Gli incassi mensili dei siti si conterebbero in centesimi o millesimi di euro.
Poi non si capisce perché le persone dovrebbero iniziare a lasciare distribuire questo obolo digitale quando fino ad oggi non lo facevano. Certo, si dirà, in questo modo si ricompensano monetariamente (ma in maniera simbolica) i creatori di contenuti digitali, Ma quello che i fondatori di Flatter non colgono è che l'economia digitale è una economia che si basa essenzialmente sul dono e sul gratuito. Non è che i blogger o gli artisti di graphic design o i musicisti o gli sviluppatori di SolidWorks siano presi da un afflato francescano di donazione di sé al prossimo. Semplicemente sul web si cerca un pubblico capace di far crescere e sostenere la visibilità e la reputazione di quel creatore di contenuti fino a fargli superare quella soglia invisibile che passa tra il dilettante e il professionista. Il modello di compensazione che cercano i creatori di contenuti digitali non si basa sulla richiesta di denaro ai fruitori. Qualsiasi blogger tra ritrovarsi 100 euro in più al mese in tasca e avere 1000 lettori in più preferisce senza dubbio la seconda.
Così come gli artisti oramai vendono quantità ridicole di cd e guadagnano invece grazie ai concerti e il licensing, così i creatori di contenuti digitali regalano i contenuti per poi essere ingaggiati come sviluppatori software, come conferenzieri, come formatori, come turnisti o musicisti di appoggio, come sviluppatori di ambienti artistici digitali e così via.
Ecco perché a mio avviso i micropagamenti non funzioneranno mai, anche la creazione di un borsellino elettronico come Flatter: l'ideologia del gratuito si è radicata profondamente tra i giovani, ed essi vogliono essere semmai fans di un sito e non elemosinieri. L'utenza dei social media ama condividere un link e far scoprire contenuti interessanti, originali, brillanti, divertenti, ma non chiederebbe all'amica alla quale ha forwardato quel contenuto di lasciare anche un obolo per il blogger o il film maker.
Se dovessi usare una metafora direi che l'economia dei contenuti digitali è estremamente distante dal commerciante borghese che prova a vendere la sua merce al miglior prezzo possibile, mentre è invece simile al contadino che semina su vari terreni i suoi semi sperando che almeno in uno germoglino rigogliosi. Al di là della metafora si tratta di un cambio di paradigma nel rapporto tra i produttori e fruitori di contenuti che stenta a essere capito da tanti che ragionano con i vecchi schemi mentali.
Siamo in un territorio incognito dell'economia, dove nessuno ha ancora elaborato formule certe per trarre valore dai contenuti pubblicati online.

martedì 14 dicembre 2010

Real Time Marketing & PR

Che cosa significa pianificare nell'epoca delle comunicazioni istantanee? Tutti i libri di pianificazione aziendale oggi disponibili, riguardino essi il marketing, la comunicazione o i processi produttivi, sono stati tutti scritti in un'epoca quando i media sociali e i modelli di comunicazione digitale erano agli albori (e solo nei casi dei testi più recenti).

David Meerman Scott nel suo ultimo libro “Real-Time Marketing & PR” si pone proprio questo interrogativo: come le aziende stanno affrontando la comunicazione istantanea e le sue innumerevoli forme? Come cambiano il marketing e le PR quando vogliono puntare a rilevare instantaneamente e rispondere istantaneamente alle sollecitazioni che arrivano dal mondo connesso?

Real-time rigurda le notizie che irrompono nel giro di minuti, non di giorni. Significa che le idee si infiltrano e si diffondono viralmente in maniera imprevedibile in un pubblico globale. Accade quando le imprese sviluppoano (o rivedono) i loro prodotti e servizi instantaneamente, sulla base dei riscontri dei clienti o degli eventi che accadono nel mercato. E accade quando un'azienda vede un'opportunità e agisce per prima per coglierla”, scrive Scott. Al di là di una certa enfasi tipica del personaggio, la questione è centrale. Qualche mese fa a un master per professionisti chiedevo (non era ancora uscito il libro) quali strumenti gli uffici stampa dove lavoravano usassero per seguire il buzz sulla rete. Nel silenzio generale solo alcuni risposero che la loro azienda riceveva da Digital PR di Hill& Knowlton un report mensile sulle notizie e commenti apparsi in rete. Dico: mensile! Flussi di tweets accadono nell'arco di minuti, in qualche ora una pagina di Facebook riceve migliaia di likes o di adesioni, ma una società di comunicazione vende alle imprese clienti (esosamente, immagino) un report sul buzz di internet a cadenza mensile. Sarebbe come abbonarsi adesso a un quotidiano per ricevere ogni giorno le copie del 2009.

Sulla falsariga del suo best seller “The New Rules of Marketing and PR”, David Meerman Scott sottolinea che se le idee e la conoscenza dei prodotti e servizi non devono più passare esclusivamente per i media per essere conosciuti allora non sarà la dimensione dell'impresa e il suo budget pubblicitario a vincere quanto invece la rapidità e l'agilità dell'impresa nel comunicare ma anche (aggiungo io) la creatività nel produrre contenuti capaci di inserirsi nei flussi della comunicazione digitale.

Troppe imprese operano sulla base delle esperienze passate o in funzione del futuro pianificato; poche operano nel presente e reagiscono immediatamente agli stimoli del presente, dice Scott il quale ha fatto un piccolo esperimento: alle prime 500 imprese della lista di Fortune's ha inviato la seguente domanda:

Negli ultimi uno o due anni le vostre strutture o i vostri processi di marketing e comunicazione sono state cambiati in funzione dell'era digitale del real-time?” Certo, la domanda era un po' criptica e forse autopromozionale, ma le aziende che si erano poste il problema non avevano difficoltà a comprenderla. Delle prime 100 aziende americane solo 28 hanno risposto ma alcune entro 3 ore e quasi tutte entro le 24 ore. Scott dimostra che c'è (sarebbe meglio dire: ci potrebbe essere) una relazione stretta tra i risultati positivi delle imprese real-time e il loro innovativo approccio al marketing. Si tratta di un'argomentazione debole, che potrebbe facilmente essere smentita ma che lascia invece integro il ragionamento di base: chi ha capito la necessità di velocizzare i processi di risposta alle sollecitazioni esterne fino a renderli instantanei ha riorganizzato in maniera concreta processi e organizzazione aziendali.

David Meerman Scott offre una serie di proposte per fare marketing e pr davvero in tempo reale, spesso frutto dell'analisi delle imprese che si sono inoltrate verso questo modello. È difficile dire quali tra queste proposte potrebbero essere traslate nel contesto italiano, in una fase in cui tante imprese sono intimorite dalla velocità del cambiamento e più che usare il digitale per inseguirlo provano a difendersene, con effetti talvolta meno inefficaci che ridicoli.

domenica 5 dicembre 2010

Wikileaks e la crisi del potere nell'epoca digitale


Quali sarebbero le clamorose rivelazioni di Wikileaks? Come ha detto Vauro in una vignetta: “Wikileaks ha scoperto che Berlusconi è un puttaniere inaffidabile” “Quando scopre anche l'acqua calda butta la pasta”. In questo senso i files di Wikileaks non fanno altro che confermare quanto si sapeva già, dall'appoggio saudita e pakistano all'integralismo islamico agli affari tra Berlusconi e Putin, dalla corruzione del governo Karzai ai giudizi crudi sui leader europei. L'unica notizia clamorosa riguarda la richiesta della Clinton di chiedere ai diplomatici USA presso la sede ONU di New York di operare come spie per futuri ricatti ai loro pari grado. Ma si tratta di una infamia annegata tra migliaia di risapute infamie e vergogne e doppiogiochi internazionali che sanno di già visto.

Alla fin fine Wikileaks ha reso disponibili a tutti gli utenti di internet informazioni digitali che erano già disponibili ai 3 milioni di americani che hanno l'accesso alla rete Siprnet del ministero della Difesa. Dunque un grande bluff? No, perché la novità radicale non è nel contenuto delle notizie, bensì nella messa in crisi dell'asimmetria informativa che da sempre ha caratterizzato il rapporto tra Stato e cittadini.

Il potere degli Stati si è sempre basato sul capacità di dominare gli altri poteri attraverso il monopolio della forza e l'accesso a informazioni riservate. Il leviatano e gli arcana imperii non possono essere disgiunti: il potere domina chi gli è sottoposto non solo con l'imposizione della forza ma anche per sottrazione di conoscenza. Hobbes e Tacito hanno individuato le due linee entro le quali il potere statuale si è sviluppato negli ultimi 20 secoli: tutta la scienza della politica dopo di loro si è per lo più rivolta alla costruzione di un apparato formale capace in prima battuta di giustificare e poi, più di recente, di rendere scrutinabile il fondo oscuro del potere.

Wikileaks dimostra nel modo più clamoroso la fragilità attuale degli Stati nel controllare e gestire i contenuti digitali. È scoppiata dunque la bomba informatica che presagiva già undici anni fa nel libro omonimo Paul Virilio, il quale prevedeva che avrebbe desertificato mente e vita degli umani. E invece la bomba scoppiata in faccia ai governanti USA, come bombaroli maldestri.

Ma se scompaiono gli arcana imperii si può continuare a governare il mondo come prima? Si può usare la rete con lo stesso approccio con cui 50 anni fa si usavano le casseforti? (e infatti si parla di codici, di chiavi, e così via) Che senso ha una forza coercitiva paralizzata da troppe informazioni o da informazioni disponibili a tutti? E se l'opposto dell'asimmetria informativa classica fosse una entropia della conoscenza che ci porta verso l'insignificanza?

La caccia all'uomo che si è scatenata contro Julian Assange è indice della debolezza isterica di un potere che si ritrova svelato nella sua inadeguatezza a controllare la rivoluzione digitale. Ma non è detto che i singoli cittadini siano capaci di farlo. Anzi. Siamo tutti in balia della tecnologia, che sembra offrici più potere e conoscenza. Ma rispetto a chi e per che cosa?

Oppure ad avere più potere e conoscenza sarà solo la tecnologia?


(nell'immagine la distribuzione per paesi trattati dei documenti in possesso di Wikileaks)

domenica 28 novembre 2010

Chi salverà i giornali?


Quando trovo il tempo o ne ho da perdere do un'occhiata ai feed rss cui mi sono registrato sul mio cellulare. Nel flusso di micronotizie che mi inonda devo sempre confrontarmi con due questioni: quanto mi interessa la notizia e quanta attenzione (in termini di secondi, minuti) posso dedicarle.

Le due domande sono le stesse al centro della crisi dei quotidiani. Per la prima volta al mondo la quantità di contenuti disponibili sopravanza enormemente il tempo che le persone hanno per assorbirli. Ma ancor di più la forma-quotidiano dei contenuti si ritrova anche a confrontarsi con la contestualità delle notizie offerte: tra centinaia di notizie scritte su decine di pagine quante davvero interessano il mondo, i valori, le scelte di varia natura dei singoli lettori?

Se gli stessi feed rss, una delle forme più personalizzate di contenuto oggi disponibili, finiscono spessissimo per cadere nella insignificanza per gli stessi fruitori che hanno scelto di riceverli, cosa ne è di una serie di fogli di carta stampati (con immagini che raramente raramente oltrepassano la didascalicità) che provano a coprire decine di argomenti e storie con rari approfondimenti e ancor più rara qualità di scrittura?

A Enrico Pedemonte va il merito di aver pensato in maniera sistematica la grande trasformazione che i contenuti digitali, distribuiti, gratuiti e autoprodotti hanno generato nel mondo dei media a stampa. Il suo testo “Morte e resurrezione dei giornali. Chi li uccide e chi li salverà” uscito poco più di un mese fa per Bompiani mi ha attratto come un buon giallo. Tutti vogliamo sapere chi salverà i giornali. Un mio amico storico inviato di guerra ha detto: “so già il nome dell'assassino, voglio conoscere il nome del reparto di rianimazione che li salverà”. Alla fine del libro questa domanda rimane sostanzialmente inevasa.

Certo, Pedemonte cita (anche in maniera frettolosa direi) nell'ultimo capitolo alcune ricerche e analisi americani come The reconstruction of American journalism della Columbia School of Journalism, il rapporto Digital Britain del governo di Gordon Brown o alcuni dati di Pew Research (di cui segnalo questi recentissimi dati sui consumi di news negli USA) per trarre da esse alcune indicazioni su come trovare nuovi percorsi di sopravvivenza per i quotidiani. Per chi come me tratta il tema in alcuni master non vi è nulla di nuovo. Semmai stupisce la scarsa attenzione data agli studi e le idee che l'INMA (International Newsmedia Marketing Association) ha sviluppato e proposto negli ultimi anni. Proprio il capitolo che doveva dare delle risposte o almeno delle risposte meno generiche di quelle solite è quello che delude di più.

Il libro non si sofferma sugli esperimenti italiani di giornalismo partecipativo, non analizza i risultati di esperienze come Blitz Quotidiano o come Il Post, non ragiona del grande successo in continua crescita delle testate dell'ANSO.

Non ipotizza neanche un modello organizzativo nuovo per le redazioni, non individua un nuovo status della professione giornalistica, non indaga sulle formule che iniziano ad emergere come il Daily che Rupert Murdoch offrirà solo agli utenti dell'iPad, primo di una serie di nuovi contenitori impaginati per i lettori digitali multimediali.

Lo stesso ricordare il peso dell'azione di Berlusconi nel mancato sviluppo delle reti televisive locali sembra veramente essere l'extrema ratio di una certa sinistra che quando non riesce ad arrivare con l'analisi e con le proposte oltre una certa soglia si rifugia “in una certa narrazione sconfittista” (cito l'intervista che i Wu Ming hanno dato oggi al Fatto Quotidiano) in cui Berlusconi è nient'altro che lo specchio distorcente dei propri limiti e fallimenti. Può essere anche vero, ma non aiuta a capire e ad agire.

È vero invece, come rimarca Pedemonte, che su un'operazione che ha comportato centinaia di prepensionamenti di una parte del miglior giornalismo italiano è calata una coltre di silenzio che si può chiamare censura o omertà, se i milioni elargiti agli editori dallo Stato attraverso il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Gianni Letta hanno trovato un equilibrio in qualche scambio di favori in cui di mezzo ci è andato il diritto dei cittadini a essere informare e il dovere dei giornalisti a scoprire certe notizie e a dar loro la giusta rilevanza. In un tale contesto la moltiplicazione di realtà di giornalismo digitale, autoprodotto, svincolato da poteri e potentati e legato davvero alle esigenze di un territorio, non è solo la inevitabile conseguenza di trasformazioni tecnologiche ma ancor di più del deficit di notizie che caratterizza da sempre il giornalismo italiano

A epigrafe dell'ultimo capitolo Pedemonte mette questa frase di Clay Shirky: “La società non ha bisogno di giornali. Ha bisogno di giornalismo”. Gli utenti del web lo sanno molto bene. Lo dovrebbero capire anche gli editori italiani se vogliono avere una possibilità di sopravvivenza che punti su innovazione e creatività e non passi solo attraverso il costante ricorso agli aiuti di Stato.

domenica 21 novembre 2010

Lo specchio dei bambini

Perché postare sulla propria foto del profilo facebook una immagine di un cartone animato per dimostrare attenzione verso la giornata dei diritti dell'infanzia?

Certo, la risposta è che la proposta è stata questa e ha riscosso un clamoroso successo sul social network. Eppure il collegamento “infanzia=cartoni animati” è meno ovvio che emblematico. Gran parte delle immagini che ho visto postate nei profili dei miei amici/ex studenti di Facebook sono relative a cartoni giapponesi degli anni Novanta. Non ho visto finora Goldrake, Mazinga o L'Uomo Tigre; pochi Lupin III, cartoni con cui son cresciuti i quasi quarantenni di oggi. In realtà mi sembra che i miei contatti di età più prossimi abbiano risposto più tiepidamente all'appello. E non certo per mancanza di sensibilità. Semplicemente penso che chi è stato bambino negli anni Ottanta ha vissuto un'infanziaa molto più televisione-centrica rispetto alle generazioni precedenti e rispetto anche a quella successiva, sempre più adusa ai computer sin dai primi anni di vita. Una generazione, quella dei bambini degli anni Ottanta, per cui le serie televisive animate hanno rappresentato un mondo totalizzante, in cui iniziare a costruire la propria emozionalità. La memoria soggettiva della propria infanzia in un ventenne di oggi è una memoria fortemente televisiva.

Se la avessi, avrei postato nel mio profilo una foto di me da bambino. Ma forse la mia generazione è stata l'ultima che si specchiava da piccoli in uno specchio vero e non nello schermo televisivo, o in quello di un computer.



mercoledì 17 novembre 2010

Critiche inefficaci

Ero già pronto per una delle mie critiche feroci. Ero aizzato dalla proposta (cortese, ci mancherebbe) di un'agenzia di pr di valutare il video della campagna istituzionale di un loro cliente, la Calzedonia. Un video che gioca con immagini banali ed emozioni facili: le calze indossate da una ragazza appena sveglia, una bambina, una mamma con la sua neonata; lo slogan finale “Calzedonia, il futuro è rosa”, che si stagliava su un tramonto romano, rosato (ça va sans dire). E lo cito nel corso di una docenza, e mi accorgo che non solo diverse ragazze lo conoscono e annuiscono, ma una addirittura dice: “mi ha emozionata”.

Mi fermo, un attimo, qualche settimana, per riflettere su questo post e pensare che non si tratta della solita diatriba tra pubblico e critici.

Una comunicazione di consumo è fatta per emozionare o convincere in pochi secondi: se ci riesce merita i complimenti.

I critici dei media dovrebbero essere consci che non stanno valutando il canone universale ma solo prodotti con un orizzonte di durata pari a quello del bilancio annuale o trimestrale del committente. In comunicazione l'efficacia è tutto e la filologia è fuffa buona solo per gli esami universitari.


P.S.: qui trovate il video della campagna 2009 per un confronto. Complimenti a chi ha deciso di passare da un commento musicale enfatico a uno intimista.

domenica 7 novembre 2010

Il curriculum alla rovescia


Dati anagrafici-Esperienze lavorative-Formazione-Interessi; Dati anagrafici-Esperienze lavorative-Formazione-Interessi; Dati anagrafici-Esperienze lavorative-Formazione-Interessi.

Il rosario dei curricula si snoda oziosamente, più o meno sempre uguale, soprattutto quando devi leggere per lavoro i percorsi di chi si è laureato di recente e nel cv può inserire relativamente poco, compresa quell'esperienza da barista all'estero.

Ma in un contesto universitario che tende a svuotare la formazione e quindi ad appiattire il valore di tanti corsi di laurea (un elenco parzialissimo: scienze della comunicazione, scienze politiche, scienze della formazione, scienze umanistiche, ma anche, purtroppo, psicologia, lettere, giurisprudenza, con tutti i dipende e le eccezioni del caso), siamo proprio sicuri che quella laurea, sia pure con il massimo dei voti, rappresenti il miglior biglietto da visita di un neolaureato?

E se invece tutti coloro che si occupano di formazione, di selezione del personale, di valutazione dei tirocinanti iniziassero a leggere i cv dal fondo, cercando di capire se la personalità di quel candidato si adatta al contesto in cui andrà a lavorare, se gli interessi che ha coltivato durante il liceo e l'università possono essere il vero valore aggiunto che porta con sé, se i viaggi che ha affrontato lo hanno portato ad avere le antenne interiori sempre accese, se le attività agonistiche in cui si è impegnato per tanti anni gli hanno insegnato il gioco di squadra, il rispetto e anche la franchezza verso gli altri e l'umiltà per ammettere gli errori?

Ma ancora di più sogno giovani laureati che coraggiosamente, con un atto un po' futurista, ribaltino l'ordine del loro curricula vitae e mettano nelle prime righe proprio le passioni, gli interessi, le curiosità che li hanno fatti diventare quelli che oggi sono, in parte molto maggiore che i corsi seguiti all'università.

Nessun timore se il selezionatore conformista scarterà questi curricula, magari inorridito o irridente: se avete avuto tale ardire non era quella la realtà lavorativa che cercavate. Ma qualcuno di certo vi cercherà e di certo sarà più aperto e interessato realmente a conoscervi.

Tutto questo può sembrare azzardato, finanche controproducente, ma chi di voi andrebbe a lavorare in un posto a priori disinteressato alle vostre passioni e ai vostri interessi, insomma a voi stessi?

mercoledì 3 novembre 2010

Affrontare (e comunicare) la sconfitta


Sconfitta durissima, soprattutto per quel che rappresenta simbolicamente, come possibile conclusione dell'opzione politica di allargare la sfera dei diritti anche in una fase di crisi e nella patria della democrazia da esportare (quale democrazia?)
Però Barack Obama decide di organizzare una conference call con i suoi militanti, piuttosto che fuggire e rinchiudersi tra i fedelissimi yesman (evito ogni paragone con l'Italia).
L'incontro è fissato per stasera, ore 16.30 della East Coast. Potete partecipare alla conference call da questo link.
Anche questa è leadership.

sabato 30 ottobre 2010

La crudeltà salvifica della tv



Che senso ha il concetto di "privacy" in tanti piccoli paesi del Sud, dove si vive sotto un controllo sociale diffuso e permanente? Dove questo controllo per lo più spinge al conformismo e al rispetto dei rapporti di forza consolidati, a sottomissioni ataviche e dunque all'accettazione di soprusi e finanche di delitti pur di evitare scandali e vergogne?
Tante polemiche da salotto colto e, appunto, privato, hanno accompagnato la presenza in televisione della mamma di Sarah Scazzi. Ma questa donna, come la mamma della potentina Elisa Claps, ha trovato solo la televisione ad ascoltare il suo rifiuto a rassegnarsi e dimenticare. Di fronte alla prospettiva di passare una vita senza un perché tra i pettegolezzi ottusi e fors'anche irridenti del paese, queste donne hanno preferito la morbosità dell'indistinto pubblico televisivo che comunque garantiva attenzione alla loro sofferenza.
La privacy non è un concetto ben definito per un popolo abituato fino a qualche decennio fa a vivere in maniera promiscua in pochi metri quadrati. Applicarlo a classi sociali che non ne hanno esperienza è un esercizio astratto e classista. La televisione si è invece rivelata un media di popolo, l'extrema ratio di chi sa di poter solo esporre il proprio dolore per trovare almeno un senso ad esso.
Gli eccessi, la spettacolarizzazione, la crudeltà del dolore mostrato in diretta tv erano dazi in qualche modo messi in conto. Ma quante volte prevale invece nei piccoli centri la crudeltà del silenzio, impunità dei forti?

venerdì 15 ottobre 2010

Aforisma

Si lavora con le parole, a volte come giocolieri a volte come minatori.

domenica 10 ottobre 2010

Comunicare, in concreto


Ci si chiede sempre come valorizzare i giovani di talento. Iniziamo intanto a dar loro visibilità.
Nel master "Corporate Communication & Public Affairs" della business school de Il Sole 24 ORE assieme all'amico Michele Mongili, responsabile della comunicazione del Dipartimento del Tesoro, abbiamo proposto agli allievi un project work per cui bisognava realizzare un prodotto di comunicazione immediatamente integrabile nel sito web del Dipartimento.
Il gruppo vincente ha lavorato alla creazione di una televisione via web del Dipartimento, con l'obiettivo di diffondere in modalità video i contenuti già presenti sul sito web in forma testuale.
Ci è sembrata un'idea estremamente efficace, economica e ricca di potenziali applicazioni in altre aree della pubblica amministrazione. Niente di nuovo, si intende, ma un gruppo di giovani neolaureati ha dimostrato di poter realizzare in concreto un prodotto di buon livello, uscendo dalle solite idee su powerpoint, a tasso più meno vago di creatività.
Mi sembra giusto segnalare i componenti del gruppo con i relativi profili su Facebook e chissà che qualche collega che segue L'Immateriale non li contatti:
Annalisa Bruno
Chiara Castrignianò
Serena Colazzo
Anna Maria Ebreo
Federico Valentini

martedì 28 settembre 2010

Appunti per un marketing dei contenuti digitali

Viviamo in un'epoca di contenuti digitalizzati, il cui costo di distribuzione è praticamente zero ma su questi stessi contenuti il marketing deve riuscire a costruire degli scambi economici.

Se ai tempi Dante Alighieri o di Cicerone fossero esistiti i diritti d'autore forse la Divina Commedia e le Epistole non sarebbero arrivate fino a noi. La creazione di contenuti testuali è stata per secoli un atto di sostanziale gratuità, frutto dei talenti di chi li componeva. Poi la stampa ha creato una filiera produttiva e commerciale attorno al testo che arrivata a codificarsi in leggi che consentono a figli e nipoti degli autori di fruire dei proventi delle opere degli antenati.

Ma un testo non un palazzo da cui trarre una rendita attraverso gli affitti, da lasciare poi ai nipoti in eredità. Un testo, in qualsiasi forma esso venga redatto, è frutto di una intelligenza sociale, stratificata nei secoli, che l'autore ha assorbito nel corso della sua formazione. In molti casi vi è il tocco del genio, che elabora i contenuti automamente e in maniera radicalmente innovativa. Ma perché figli e nipoti mediocri dovrebbero guadagnare grazie al parente genio?

Dopo secoli il digitale sta rompendo tutte le barriere che la cultura del copyright aveva creato attorno ai contenuti. Siamo già dentro un'epoca in cui i contenuti sono gratuiti o costano una cifra irrisoria. Pertanto il mero possesso di un contenuto non garantisce quasi più nessuna rendita, nessun vantaggio competitivo su cui costruire una strategia.

La leva di marketing diventa non tanto il contenuto in sé, ma la capacità di diffondere nella maniera più appropriata i contenuti gratuiti, sviluppando attorno ad essi attenzione, reputazione, rilevanza.


sabato 21 agosto 2010

In viaggio verso la conversazione multicanale

Ecco un bell'esempio di un'azienda italiana che fa comunicazione utilizzando il web 2.0.
Invece del solito e ormai banale minisito pubblicitario corredato da banner e media relations online, per diffondere tra i giovani la carta di credito Genius Unicredit ha lanciato tra aprile e luglio un web contest dal titolo “In viaggio con Genius Card”. I giovani tra i 18 e i 30 anni partecipavano “creando una pagina personale online con video, immagini o testi che raccontano il proprio progetto e il viaggio collegato alla sua realizzazione”. Si vinceva sulla base della popolarità (intesa come valutazioni delle pagine da parte degli utenti più i link esterni che puntavano ad esse) e del giudizio di una “Giuria di qualità” (termine e concetto orrendo, che presuppone che l'altro metro di valutazione sia dozzinale e facilmente manipolabile).
Al di là dei risultati raggiunti dall'operazione che ad oggi non si conoscono, l'iniziativa è stata architettata molto bene: i contenuti sono dinamici e prodotti dagli stessi utenti, che finiscono per essere anche i primi promotori dell'iniziativa; la comunicazione pubblicitaria è presente ma sta sempre sullo sfondo, lasciando spazio ai contenuti; i partecipanti al concorso diventano parte di una community e finiscono per intrecciare tra loro relazioni e condivisioni; vi è infine crossmedialità grazie alla possibilità di seguire il contest su Facebook e Twitter.
Certo, si tratta di una operazione sperimentale, di nicchia, quasi di frontiera per l'Italia, dai costi ridotti ma suppongo dal ROI interessante. Eppure sono proprio queste le iniziative che contribuiscono a far spostare il panorama della comunicazione italiana dal monologo pubblicitario verso la conversazione multicanale.

giovedì 19 agosto 2010

In memoriam di Giuseppe Reale


Poco più di un mese fa è uscito dal mondo Giuseppe Reale.

Non starò a ripercorrere il suo cursus honorum politico o le tante iniziative che ha promosso.

Mi incontrò che avevo diciannove anni alla presentazione di un libro e da allora ha sempre coltivato il rapporto con me, anche più assiduamente di chi scrive. Non passava San Biagio che egli non telefonasse a casa dei miei per farmi gli auguri o lasciarli a mia madre. E cosa potevo offrirgli io, studente universitario e poi giovane professionista a Milano? Nulla. Ed egli nulla chiedeva.

Giuseppe Reale cercava le persone, non gli individui. Di questo suo valorizzare la persona senza aggettivi o attributi professionali erano coscienti tutti coloro che lo conoscevano. Egli donava la sua amicizia e la sua attenzione (davvero profondamente cristiane) a tanti che incrociavano la sua esistenza con lo spirito di un apostolo che ti offre la possibilità di guardarti dentro e cambiare grazie alla forza del messaggio evangelico. In questo senso la sua parabola politica ha seguito più gli ideali che le ideologie, e si rammaricò con me per non aver mai voluto far parte di una delle correnti della Democrazia Cristiana di fronte alle varie offerte di sottosegretariati non per il maggior potere in sé che ne sarebbe derivato, ma per le tante iniziative che avrebbe potuto realizzare o più agevolmente conseguire. Questo suo modo di essere potrebbe essere tacciato di ingenuo idealismo.E invece Giuseppe Reale ha lasciato alla Calabria molte più iniziative innovative e istituzioni funzionanti di tanti altri politici, incapaci di andare oltre un cinismo banale e dal fiato corto.

In un'epoca in cui i giovani vengono mortificati e le idee innovative irrise si sentirà ancora di più la mancanza di persone come Giuseppe Reale.

venerdì 30 luglio 2010

Paralleli storici

Siamo entrati nella Repubblica di Salò del berlusconismo, dunque nella sua fase più truce e disperata.
Aspettiamoci dunque scelte e decisioni che terranno conto solo della volontà di resistere al potere il più a lungo possibile, con i pasdaran di Berlusconi pronti a terremotare istituzioni e media anche per dare sfogo al loro spirito di rivalsa verso tutti coloro che saranno considerati traditori o non abbastanza allineati.
Anche questo, come sempre nella storia d'Italia, è uno scontro tra le élites, eppure come il movimento partigiano, diffuso ma non di massa, consentì all'Italia di riguadagnare la reputazione perduta a livello internazionale, così blog, testate e giornalisti non allineati, associazioni e singoli cittadini dovranno rischiare qualcosa in più d'ora in avanti (vedi i vincoli che si vogliono mettere all'informazione online).
Quando poi tutto finirà la massa, come sempre, andrà in soccorso dei vincitori.

mercoledì 28 luglio 2010

Mappatura dei gruppi editoriali italiani

Per ex allievi e non, inserisco la versione aggiornata delle slide che provano a inquadrare (con inevitabili semplificazioni e omissioni), prodotti, strategie e prospettive dei principali gruppi editoriali italiani.


lunedì 19 luglio 2010

Aforisma

Chi cerca di sfuggire al proprio passato finisce per scontarlo ogni giorno.

mercoledì 14 luglio 2010

Errori di visualizzazione

Come a volte capita il mio ultimo post dell'11 luglio non si visualizza (se non il titolo) se si usa come browser Explorer.
Per cui se prprio vi interessa leggere sempre quello che scrivo vi invito a scaricare Firefox o Chrome.

domenica 11 luglio 2010

Diffamazione via web (quando il blog non è innocente)


Chi opera su internet in maniera più avvertita è ben cosciente delle ambagi digitali che l'informazione online può celare. Una notizia falsa giace per mesi in un permalink, finquando qualcuno non la crede vera e fresca e la riprende. Non capita solo a qualche blogger sprovveduto: recentemente Marco Travaglio nel suo Passaparola del lunedì sul blog di Beppe Grillo ha chiamato a raccolta i suoi sostenitori contro un emendamento del pacchetto sicurezza per poi aggiungere un postscriptum in cui si scusava di aver ripreso da internet una notizia vecchia di un anno.

Ma su internet puoi disseminare tante notizie false, che poi il passaparola da link a link diffonderà viralmente. E puoi anche creare video fasulli e caricarli su TouTube. E anche pagine sui social media che puntano ad aggregare non solo i fan ma anche i nemici del tuo avversario politico.

Dunque un personaggio come Flavio Carboni, l'archetipo di tutti i faccendieri italiani, ha attraversato la storia della delegittimazione dai dossier del Sifar ai blog su internet dove cercava di azzoppare la candidatura di Stefano Caldoro a presidente della Regione Campania attraverso false notizie su sue presunte frequentazioni con trans. Nel suo obiettivo di distruggere Caldoro a vantaggio di Nicola “'o 'mericano” Cosentino, anello di congiunzione tra Pdl e clan dei Casalesi per la DIA di Napoli, era fraternamente affiancato da Denis Verdini, editore de Il Foglio e de Il Giornale della Toscana.

Non mi sembra che nessun blogger o giornalista online abbia scoperto tale mistificazione. Poco male, alla fine ci sono arrivati i giudici. Ma quando i giudici non ci arrivano chi ti difende dalla diffamazione online, spesso orchestrata ad arte? La soluzione non sta certo in qualche limitazione della libertà di opinione eppure bisogna ammettere che oggi un “blogger” (uso le virgolette non a caso) può diffamare chiunque, diffondere video o altri link calunniosi e non rischiare assolutamente (o quasi) nulla. Anche con una reputazione e un pagerank miserrimi quel pseudo blogger avrà immesso nella rete un falsficazione nella quale potrà imbattersi chiunque in cerca di piste o di indizi di attività poco limpide di qualche personaggio pubblico.

Siamo certi che dichiarare la rete capace di autocorreggersi non sia equivalente a credere ideologicamente alla fola liberista che il prezzo di mercato è sempre frutto del miglior incontro possibile tra domanda e offerta?

Come ci si può difendere in questi casi? Il ricorso al Codice Civile funziona sul web? Possiamo chiedere una sospensiva ex art. 700 per un blog letto da poche decine di persone? E se nel frattempo si è creato un mirror su un server russo o brasiliano? Possiamo smentire, certo, ma dove e come?

L'idea di una crescita del web esuberantemente svincolata da qualsiasi parametro di verifica e controllo sia sulle fonti che sulla distribuzione forse inizia a mostrare la corda.

Chi per mezzo di internet sta perdendo parte del predominio sui contenuti che aveva grazie alla televisione ha capito che è difficile limitare il nuovo media ma di certo lo si può manipolare.

Forse ci vorrebbe un gran giurì o un'authority del web, capace di eliminare i permalink fraudolenti o gratuitamente ingiuriosi in 24 ore dalla segnalazione, prima di qualsiasi decisione di merito della magistratura.

Ma queste sono solo sollecitazioni. Mi aspetto proposte più convincenti dai miei quattro lettori.

martedì 6 luglio 2010

Ha oltrepassato la conoscenza terrena

Ci sono persone capaci di camminare più veloci degli altri sulla via della conoscenza. Quando ci lasciano siamo tutti più smarriti e ignoranti, anche coloro che non li conoscevano.
Marina Gersony aveva avuto la fortuna di conoscere meglio di me Gabriele Mandel Khan: riprendo di seguito il ricordo che ne ha fatto sul suo blog.
http://www.marinagersony.com/2010/07/laddio-terreno-di-gabriele-mandel-khan-il-maestro-sufi-che-credeva-nella-reincarnazione/

domenica 20 giugno 2010

Gli 11 marchi che scompariranno nel 2011 (e una nota su Fiat)


L'Huffington Post si è divertito a presentare la nuova graduatoria redatta da 24/7 Wall St. degli 11 marchi che scompariranno entro il 2011.

Scorrendo la classifica viene in mente che sono due le ragioni che hanno portato queste imprese a uno stato prefallimentare. In alcuni casi (Reader's Digest e Blockbuster) i loro modelli editoriali sono stati messi in crisi da nuovi modelli basati su internet, dove i contenuti si possono selezionare in autonomia o dove siti come Netflix ti consentono di accedere a decine e decine di migliaia di titoli che nessun negozio fisico avrà mai. In un certo senso dunque Reader's Digest e Blockbuster sono vittime della coda lunga nelle opzioni di scelta dei contenuti la digitalizzazione ha reso possibile.

Ma la seconda categoria di società (in cui rientrano nomi celebri dell'industria finanziaria come Moody's e Merrill Lynch, società di retail come Radio Shack e Zale, di noleggio auto come Thrifty, di telecomunicazioni come il ramo americano di T-Mobile e le automobili Kia) è fatta di società che non sono riuscite a rafforzare la loro immagine rispetto ai concorrenti o che hanno avuto un enorme danno in termini di reputazione negli ultimi anni. In questo senso l'elenco ipotizza che presto la BP sarà costretta a cambiare nome, come già fece quando rinunciò allo storico British Petroleum a seguito di altri disastri ambientali. Il cambio del marchio non cambierà nulla degli obblighi legali e monetari cui dovrà far fronte la società ma in alcuni casi si arriva alla costatazione che un marchio è diventato un marchio d'infamia insostenibile.

Cerchiamo dunque una conclusione più generale. Chiunque non riesce a digitalizzare i contenuti che propone e a farli pagare (se si tratta di un'impresa commerciale) è destinato prima o poi a scomparire. Ma è destinato altrettanto a scomparire chi non riesce a crescere in reputazione e a far in modo che immagine e realtà aziendali siano coerenti (il sito della BP prima del disastro del Golfo del Messico sembrava quello di un'organizzazione ambientalista).

Oggi reputazione e contenuti (intesi anche come esperienza e senso che offri al tuo cliente) sono alla base di qualsiasi successo.

Anche la Fiat dovrebbe riflettere sul crollo di immagine che sta subendo a seguito del modello di relazioni industriali imposto a Pomigliano. Perché gli automobilisti italiani dovrebbero continuare a comprare macchine di un'azienda che da tante parti viene criticata o addirittura accusata di comportamenti ricattatori da commentatori e politici (per una breve rassegna cliccare qui, qui, qui, e qui)? E quanto il rilancio Fiat degli ultimi anni è dipeso da buoni modelli ma anche da una strategia di comunicazione che aveva fatto riguadagnare al Lingotto simpatia e goodwill?

domenica 30 maggio 2010

L'ufficio stampa: da Minculpop aziendale a produttore di contenuti


Il vecchio adagio giornalistico recita che una smentita è una doppia notizia.
Una ricerca sviluppata negli Stati Uniti dagli scienziati politici Brendan Nyhan dell'università del Michigan (qui trovate un suo articolo su tutte le false informazioni sulla riforma sanitaria di Obama sedimentatesi nell'opinione pubblica) e Jason Reifler della Georgia State University di Atlanta conferma in pieno quello che tutti i giornalisti e i comunicatori almeno un poco esperti sanno da quando hanno iniziato a capire qualcosa dei meccanismi mentali di chi li segue.
I due studiosi evidenziano che sono due i meccanismi che si innescano. La dissonanza cognitiva innanzitutto: una volta che ci siamo costruiti uno dei nostri rassicuranti pregiudizi cerchiamo conferme ad esso anche quando nuove informazioni vorrebbero metterlo in dubbio. Il secondo principio viene chiamato "backfire effect", ovvero "ritorno di fiamma" che potremmo semplificare così: "tu provi a farmi cambiare idea? E io per dispetto mi intestardisco ancor di più nelle mie convinzioni". Chi di noi in una discussione politica o pallonara al bar non si è incaponito a difendere le proprie idee rischiando la coerenza e la faccia anche di fronte ad argomentazioni incontrovertibili?
Ora, cerchiamo di calare questa ricerca in quel mondo del pressappoco dagli indistinti confini che è la comunicazione. Con sagacia l'articolo di Repubblica si intitola "Vita eterna per le bugie soprattutto se rettificate" e finquando non crolla il server o non viene eliminata una notizia online ha una buona approssimazione all'eternità.
Ai bei tempi quando la carta stampata la faceva da padrone era relativamente semplice. A mezzogiorno il quotidiano serviva per incartare il pesce (e né il pescivendolo né il suo cliente lo avevano quasi mai letto) e poi una buona agenzia di comunicazione aveva persuaso il giornalista o il caporedattore della inessenzialità della notiziola che finiva nascosta in un taglio basso o in una breve.
Ma oggi con internet come si fa? Quella stessa notiziola, accuratamente mimetizzata dal giornalista che per questo aspetterà a Natale almeno un panettone gigante, viene ripresa dal sito internet di informazione locale o dal blog specializzato, che la metteranno in evidenza. E altri blog e altri siti riprenderanno la notizia, creando altri link che faranno salire la visibilità della notizia su Google Pagerank. E qualcuno la posterà sul suo profilo Facebook mentre al contempo la notiziola prenderà il volo con i tweet di Twitter. E mica possiamo spedire un panettone a tutti?
Insomma, i vecchi sistemi delle relazioni con i media mostrano la corda. Come spesso accade nel trapasso tra media analogici e media digitali bisogna ripensare tutto. Il vecchio ufficio stampa che da alcuni viene ancora interpretato come un Minculpop aziendale da cui devono passare solo veline gradite, gradevoli e leggere, con annessa censura o edulcorazione dei fatti imbarazzanti, deve trasformarsi in una redazione capace di diffondere costantemente contenuti competenti e consistenti a tutti i soggetti interessati, sia quelli che operano in media maturi sia sui nuovi media o nei media sociali. La soluzione è quella di disseminare in tutti i media, soprattutto quelli sociali, una messe di informazioni capace di creare un contesto positivo, in cui le inevitabili notizie negative, frutto di errori, manchevolezze o anche di reale malafede, possano trovare un certo bilanciamento.
Detta così sembra semplice ma quanti capiazienda sarebbero disposti a rinunciare ad avere un ufficio stampa inteso come megafono aziendale per ritrovarsi un staff di produttori di contenuti capaci anche di dire dei no?

domenica 23 maggio 2010

Slides su mappatura dei media italiani

Come promesso ecco a voi la presentazione sui gruppi editoriali italiani. Presentazione che trovo parziale e incompleta. Il fatto che mi sia stata richiesta da più di professionista forse indica che nelle agenzie italiane circolano cose sull'argomento ancora più parziali e incomplete. Forse?

sabato 15 maggio 2010

Connessioni virtuose

Al mondo non mancano mai né i soldi né l'intelligenza; invece scarseggiano coloro che sanno mettere i due beni in connessione.

Internet, una domanda oltre i numeri del fenomeno



Erik Qualman ha aggiornato il video di presentazione del suo libro Socialnomics ed in appena dieci giorni è stato già visto oltre duecentomila volte. Il precedente video, creato in occasione della prima edizione del libro ad agosto 2009, ha superato ad oggi, in meno di nove mesi, il milione e novecentomila visualizzazioni.
Il video si apre con una domanda retorica: “ internet è un bluff o la più grande trasformazione sin dalla rivoluzione industriale?”. Tutto, anche la musica di Fatboy Slim, è molto coinvolgente ma, come spesso capita agli americani, essi sanno colpirci con i numeri ma non riescono a spiegarci cosa cambia davvero grazie a questa tecnologia.
In questo senso capire le dinamiche e gli effetti dell'uso dei media sociali fatto da Barack Obama nella sua campagna presidenziale è molto più intrigante che aggiornare il computo degli iscritti a Facebook.
Vi è una grande retorica attorno ai social media, l'idea che siano inevitabilmente e inequivocabilmente portatori di maggiore scelta, partecipazione, coinvolgimento, dialogo, spontaneità, eguaglianza. E tutto questo è senz'altro vero. Ma come per i media di massa ci son voluti decenni per sottometterli in gran parte a logiche di dominio politico e pubblicitario, non si può escludere che in qualche parte del mondo si stiano già facendo studi ed esperimenti su come manipolare i social media.
Quando la quantità muta in qualità, lì avvengono le grandi trasformazioni e qualche volta anche le rivoluzioni. Ma nella storia dell'uomo ogni rivoluzione, dalla stampa alle rivoluzioni politiche del secolo scorso, è stata sempre piegata ai voleri di chi deteneva il potere.
Perché non dovrebbe capitare anche per Internet?

martedì 11 maggio 2010

Contenuti gratuiti e copioni sfacciati


I contenuti sono l'unica leva efficace di un moderno marketing. Difficile farlo capire a chi ancora pensa di fare marketing con una buona persuasione, una brillante pubblicità o con una sponsorizzazione ruffiana. I potenziali clienti sono spesso più avanti di pubblicitari e pr managers: rispetto ai vecchi strumenti del marketing le persone comuni reagiscono meno con fastidio che con sufficienza.

Vi è un diffuso dibattito tra gli esperti se i contenuti di pregio (quali per esempio un e-book, una presentazione, un seminario online, un podcast) debbano essere distribuiti liberamente o attraverso almeno un form di registrazione (in inglese squeeze page, proprio una pagina che ti spreme i tuoi dati personali). Sull'argomento John Meerman Scott ha pubblicato un post qualche settimana fa in cui dava spazio ai pareri di Tom Peters e Seth Godin. Quest'ultimo ha sintetizzato il suo approccio con una frase chiave: The more I'll give away the more I 'll get back. Le centinaia di blog di successo anche in Italia stanno a testimoniare che regalare contenuti gratuiti è una filosofia ma anche una scelta di marketing personale vincente.

Eppure bisogna chiedersi quale è il mio obiettivo di marketing.

Se l'obiettivo è rafforzare la reputazione personale o dell'impresa la distribuzione gratuita dei contenuti è una scelta pressoché obbligata (fermo restando la capacità di produrre davvero contenuti originali e interessanti)

Se invece si intende sviluppare un database di contatti e prospect e allora si può anche inserire un form di registrazione, ben sapendo che una parte dei tuoi visitatori rinuncerà a lasciarti i dati, scocciata al solo pensiero di vedersi inondare la email di proposte commerciali. .


Recentemente ho saputo che una consulente di pr è venuta in possesso delle presentazioni di alcune mie docenze e le ha distribuite alle persone della sua agenzia. Avrei potuto arrabbiarmi e protestare ( e forse anni fa avrei fatto). Invece trovo più semplice mettere a disposizione di tutti su questo blog le docenze in questione (e anche altre) nel corso delle prossime settimane.

In un mondo dove i contenuti sono liberi, chi li copia e li spaccia come propri è destinato, prima o poi, a fare pessime figure.


domenica 25 aprile 2010

Particelle elementari (Rassegna stampa/3)

Quello che voleva essere solo un meme, uno spunto di dibattito, come il mio secondo post sui limiti dello strumento rassegna stampa cartacea, ha scatenato commenti anche feroci sul sito della FERPI in cui, tra chi, stizzito, ritiene che scrivo banalità (possibile, ne dico più di una al giorno, invero) e chi mi accusa di fare confusione (come se la stringatezza di un post dovrebbe essere valutata con i parametri di un paper universitario) emerge la necessità di sviluppare dei parametri condivisi di misurazione e valutazione delle uscite sui media sulla base dei quali poi impostare i percorsi soggettivi di indagine e presentazione dei risultati.
La questione secondo me è tutta qui.
Piuttosto che rispondere punto per punto ad osservazioni che ho anche condiviso, ritengo semmai che la comunità dei comunicatori (e la FERPI in primis) debba iniziare a sviluppare una lista di parametri da far confluire in uno schema sulla base del quale poi ogni professionista, azienda o agenzia possa elaborare un suo modello, adattabile alle diverse esigenze dei clienti.
In questo senso c'è tanto da dibattere. Ma dopo esserci anche creativamente insultati bisognerebbe raggiungere alcune acquisizioni univoche, gli elementi di base capaci di caratterizzare l'approccio di tutti i professionisti.

domenica 11 aprile 2010

Il biocapitalismo di Vanni Codeluppi


Vanni Codeluppi è stato tra i primi in Italia ad affrontare le problematiche del biocapitalismo all’interno di un testo esplicitamente dedicato al tema, pubblicato da Bollati Boringhieri nel giugno 2008.

Nell’introduzione e nel primo capitolo Codeluppi riesce a sviluppare in maniera incisiva e profonda alcuni spunti di grande importanza, soprattutto quando ragiona sulle trasformazioni che la conoscenza ha subìto per diventare una merce fungibile e monetizzabile e quando presenta il terzo lavoro degli individui, che al tempo del lavoro e dello svago affiancano il tempo per la fruizione e la diffusione della conoscenza e delle pratiche che sostengono l’intera architettura della società in cui vivono. Ma lo spunto di Codeluppi (che in tal caso cita esplicitamente Angelo Deiana de Il capitalismo intellettuale,2007) poteva trovare maggior spazio nei capitoli successivi, che a volte indugiano a contestare delle pratiche di condizionamento dei consumatori o l’infiltrazione dei media e della cultura da parte delle aziende, fenomeno che, dalle classiche soap operas al product placement, non è proprio nuovo.

Meritava invece maggior approfondimento l’aspetto ideologico, semantico e mediatico del biocapitalismo, ovvero la necessità di capire e analizzare quali sono i meccanismi attraverso i quali (come dice De Kerchove citato da Codeluppi) “si forma una psiche elettronica che propone una paracoscienza collettiva”. Senza questa nuova coscienza collettiva, che a mio avviso rappresenta un salto qualitativo dello sviluppo economico umano, il biocapitalismo non avrebbe potuto svilupparsi.

Il buon vecchio Karl Marx denunciava l’espropriazione di valore dall’individuo sostanzialmente come una espropriazione della sua umanità, che sfociava poi nel processo di alienazione. Come si sa, il filosofo di Treviri pone l’origine del valore tout court nell’uomo e nel suo lavoro. All’epoca il conflitto era ben visibile nella sua materialità: lo sfiancamento di muscoli e tendini dopo una settimana di lavoro in opificio e l’abbruttimento morale e psichico che ne seguiva era innegabile. Spesso i lavoratori ignoranti non avevano la coscienza di classe che Marx invocava ma istintivamente i loro corpi e le loro menti si ribellavano alla fatica fisica.

Ma quando i processi di espropriazione diventano immateriali non vi è più un padrone manchesteriano da indicare come grande sfruttatore. L’estrazione del valore dagli individui avviene attraverso l’adesione a un modello culturale, ideologico ed estetico del tutto astratto, le cui manifestazioni, quali certi film, certi prodotti, certi format televisivi sono gli epifenomeni. Oggi l’estrapolazione del valore può anche avvenire mentre gli individui si divertono, invece che sudare in officina. La centralità passa dalla produzione al consumo e senza l’interiorizzazione di determinati modelli o format da parte della maggioranza degli individui l’intera meccanismo di accumulazione del valore immateriale si blocca.

Forse Vanni Codeluppi si sofferma troppo nella raccolta di tanti epifenomeni quali il branding, i reality, il cinema commerciale e finisce per sfuggire a una ricerca dei meccanismi profondi che sviluppano un’architettura di persuasioni condivise attraverso la quale oggi si estrae valore dagli individui e dagli oggetti.

Insomma, le leggi economiche della scarsità o dello squilibrio tra domanda e offerta non riescono a spiegare né perché una bottiglia di Sassicaia arriva a costare anche oltre 300 euro in giro per il mondo e nemmeno perché tanti giovani laureati e iperspecializzati accettino di donare il loro lavoro e le loro competenze come stagisti a volte anche per anni.

Penso che la sfida sia qui, nell'iniziare a capire ( e a contestare) ideologia, semantica e processi mediatici del biocapitalismo.

A Vanni Codeluppi il merito di aver aperto il dibattito e alcuni sentieri di analisi.

martedì 6 aprile 2010

A che serve la rassegna stampa?/ 2 (e una proposta ai lettori)

Pensare oggi di poter seguire il flusso di informazioni sull'argomento che ci interessa utilizzando solo la rassegna stampa è come usare le vecchie Polaroid nell'epoca delle videocamere digitali. La Polaroid funziona ancora, certo, ma chi non si accorge (o non sa) delle trasformazioni della tecnologia non capisce il mondo dove vive. E se un'organizzazione o un'impresa non capisce il contesto dove opera ha il destino segnato.
Per usare un'altra metafora la rassegna stampa è come quell'orologio fermo che segna esattamente l'ora due volte al giorno. Cosa ce ne facciamo in pratica di un siffatto orologio?
Nell'epoca dell'informazione flusso bisogna sviluppare un monitoraggio dei media capace di seguirne il flusso. Bisogna dunque passare da un logica di rassegna (selezione degli articoli sui mass media riguardo un determinato argomento) a una logica di tracking (tracciare l'origine, lo sviluppo e la diffusione delle notizie su tutti i media, personali, sociali e di massa).
Per fare questo abbiamo strumenti estremamente semplici anche nel nome, come i Really Simple Syndication. Con un RSS feed possiamo sapere cosa dicono i siti web di informazione o i singoli blog su un determinato argomento. Con i reader quali NetVibes, PageFlakes e Google Reader possiamo prendere il meglio delle funzionalità sia dei reader web-based (come yahoo o google) sia di quelli stand-alone (come NetNewsWire per Mac, Sharpreader per Windows) per raccogliere le occorrenze delle varie notizie e leggerle e analizzarle, anche offline, organizzate in folder.
Ora viene da chiedersi perché così poche aziende italiane si dedicano a questo tipo di news tracking, estremamente semplice da sviluppare.
Anzi, lancio un dibattito tra i miei quattro lettori: chi di voi conosce aziende o agenzie di comunicazione che utilizzano quotidianamente gli RSS feed per monitorare i settori o le tematiche di loro interesse? E se sì, come e quando li utilizano? E infine, che uso fanno delle notizie così tracciate?

sabato 27 marzo 2010

L'estetica biocapitalistica di Lady Gaga



Lady Gaga è il fenomeno del momento. La signorina Germanotta in pochi mesi ha dimostrato di non essere solo un prodotto discografico ma di saper imporre una propria estetica capace di ribaltare i suoi stessi assunti di partenza.

Mentre Madonna proponeva delle identità temporanee (da quella dark alla quieta signora di campagna attraverso la material girl, la latina, il country, il fetish e così via) quasi come abiti da indossare per le poche settimane di una stagione discografica, Lady Gaga non usa il corpo come un vestito su cui attrarre l’attenzione o lo scandalo ma come uno strumento di potere e di sottomissione altrui. Negli anni in cui è stata anche spogliarellista la Germanotta ha imparato che l’inusuale e l’estremo sono due dimensioni con le quali un corpo femminile di cui sappiamo (crediamo di sapere) tutto può ancora attirare interesse e curiosità. Ma è un corpo che si è appropriato di se stesso, e, pur lasciandosi attraversare dagli sguardi altrui, riesce a non essere un mero oggetto di seduzione o di appropriazione erotica. Anzi. Nei video e nelle apparizioni pubbliche di Lady Gaga l’esibizione finanche pornografica del suo corpo non finisce per avere nulla di eccitante poiché, come ha scritto nel 2007 Slavoj Žižekchi ha letto il marchese De Sade sa bene che la disinvolta affermazione della sessualità, spogliata da ogni traccia di trascendenza spirituale, si trasforma paradossalmente in un esercizio meccanico privo di autentica passione sensuale

In questo senso Lady Gaga e Beyoncé nel video Telephone utilizzano i loro corpi per manipolare e annichilire (fino alla soppressione fisica) maschi pressoché privi di una dimensione psichica, figuriamoci di una affettiva.

La filosofa Michela Marzano su la Repubblica di ieri ha proposto una chiave interpretativa intelligente: “La cultura pop utilizza da sempre "la potenzialità metafisica" della merce, come direbbe il filosofo Adorno (…) nel caso di Telephone, questa potenzialità è iperbolica: i simboli vengono utilizzati per capovolgere il senso comune e per costringere lo spettatore ad interrogarsi non solo su ciò che "fa" (il ruolo che occupa), ma anche su ciò che "è" (il personaggio che interpreta). Parodiando la retorica fetish, Lady Gaga ribalta l´orgia di seduzione consumistica cui sembra sottomettersi (…) questo non è un clip che fa l´apologia della violenza, della pornografia o della pubblicità. Ma allora di cosa si tratta? Rappresentazione, incubo, parodia, semplice divertissement? (…) Per certi aspetti, Telephone è un video "queer" - letteralmente strano, eccentrico. Usato come un insulto il cui equivalente sarebbe "sporca lesbica" o "sporco frocio", il termine queer è stato oggetto, nell´America degli anni Novanta, di una progressiva riqualificazione: in poco tempo, si è passato dall´insulto alla rivendicazione, per sottolineare l´importanza della decostruzione delle identità di genere.

Non so se, come dice la Marzano, “il video di Lady Gaga spinge milioni di spettatori ad uscire dai dispositivi culturali dominanti”, di certo la signorina Germanotta ha capito perfettamente certe dinamiche di utilizzo semantico del corpo nell’epoca del biocapitalismo. La forza di Lady Gaga sta nel fatto che riesce a piegare un certo immaginario diffuso basato su sesso e consumo in uno strumento funzionale alla promozione della sua immagine. Non si limita a utilizzare i topos dell’immaginario iperconsumista ma se ne appropria, li rielabora, li estremizza e li ribalta, dimostrando una notevole creatività e una straordinaria consapevolezza.

La musica, poi, finisce per essere solo un pretesto.

domenica 14 marzo 2010

Joe Rospars: making the conversation

Notate quante volte nel video della BBC sui "Digital Giants" Joe Rospars, capo della strategia di comunicazione digitale della campagna di Barack Obama, cita il termine "conversation". Non più un modello broadcast uno-molti e nemmeno un modello relazionale, in cui si ascolta il cliente o l'elettore, ma un modello in cui si apre un vero dialogo con il cliente, il sostenitore, l'elettore, ti confronti con lui e quasi concordi con lui le iniziative da intraprendere.
Attenzione anche all'ultimo passaggio. Rospars afferma che più si diffonderà l'accesso a internet veloce sempre più persone chiederanno di partecipare ai processi di decisione democratica, di decidere e mobilitarsi su questioni concrete, del mondo reale.

E' di oggi la notizia del piano di Obama per portare internet veloce in tutte le case degli americani entro dieci anni.
Il confronto con l'Italia dove il presidente del consiglio vuole invece mettere il bavaglio ai giornalisti televisivi non allineati finisce per risultare ancora più drammatico.