domenica 23 giugno 2013

Chi guadagna dal mio “essere social”?



“Bisogna essere assolutamente moderni”, scrive Arthur Rimbaud nel 1873. “Bisogna essere assolutamente social”, dicono in tanti nel 2013, giusto 140 anni dopo. Ma che cosa implica “essere social”?
Nel 1979 Jean François Lyotard teorizzò, in un librettodestinato a grande fama, l’avvento dell’età post-moderna, la cui caratteristica principale era la fine delle “grandi narrazioni”, politiche, religiose, nazionali. Da allora il prefisso post è stato messo un po’ a tutto: fino a teorizzare i post-italiani e la post-nazione, di cui l’Italia attuale è (sarebbe, per gli ottimisti) un paradigmatico esempio.
Se risulta innegabile che le grandi narrrazioni politiche che hanno alimentato le opzioni sociali per gran parte del Novecento sono oggi affievolite o marginali (illuminismo, comunismo-socialismo, liberalismo), è pur vero che gli ultimi trent’anni la grande narrazione del mercato nella sua accezione neoliberista ha dominato e condizionato la scena politica e sociale. Sbagliava dunque Lyotard a ritenere che non sarebbero emerse altre idee totalizzanti, capaci di imporsi per alcuni addirittura come verità incontrovertibili. Quante persone, ad esempio, hanno rinunciato alle loro inclinazioni umanistiche e si sono adattate a crearsi una professione che rispondesse alle esigenze del mercato? Quanto la propaganda neoliberista veicolata dai mass media ha imposto certe logiche e certe retoriche ad organizzazioni come ad interi stati? Non è questa una grande manipolazione dei bisogni e delle aspirazioni simile a quella che impongono i regimi totalitari? Ancora oggi “il mercato” o “i mercati finanziari” sono usati per far accettare decisioni anche arbitrarie prese da chi queste entità, rappresentate quasi come ipostasi apofantiche, le muove in funzione dei propri interessi.
Oggi la nuova grande narrazione si chiama “social”. Siamo spinti a essere presenti sui media sociali e a interagirvi, a creare contenuti, a relazionarci con innumerevoli soggetti, il tutto per giustificare, confermare, rafforzare la nostra presenza, ovvero la nostra esistenza “social”. Come dice David Meerman Scott “on the web you are what you publish” e aggiunge: “if you publish nothing you are nothing”. Se produci contenuti interessanti creerai attorno a te interesse, reputazione e forse anche possibilità di sfruttare commercialmente tutto questo. Ma le modalità che i singoli hanno di estrarre valore dalla loro identità e dai loro comportamenti digitali sono infinitesime rispetto a quanto ottengono da essi le grandi piattaforme di comunicazione come Google, Facebook e tutti i media sociali. Per essi, questo “essere social” produce valore, anche monetario, poiché viene incanalato nei meccanismi di analisi dei Big Data. Il “valore social” di un fatto, di un contenuto, di una relazione finisce per essere pari alla possibilità di immetterlo nei processi di estrazione del valore, di metterlo in connessione con altri dati e di rendere questi dati immediatamente utilizzabili per azioni commerciali o politiche o di qualsiasi altro genere purché trovino un acquirente.
Le piattaforme social sono oggi lo strumento di sfruttamento biocapitalistico della naturale tendenza sociale delle persone. In realtà, non basta che Facebook prometta di essere per sempre gratuito: tutti i media sociali dovrebbero pagare gli utenti per ogni contenuto postato, sia pure pochi centesimi di dollaro, come fa Google AdSense.
Questa spinta a “essere social” è la grande narrazione dei nostri giorni e come ogni grande narrazione finisce per condizionare le scelte e le vite di decine di milioni di persone in tutto il mondo. Ci sono ambiti professionali in cui non si può scomparire dal proprio “mondo social” per più di qualche settimana se non si vuole rischiare di scomparire nella visibilità e quindi nella possibilità di essere ingaggiati come esperti.

L’ “essere social” è dunque la socialità attraverso i media sociali e il web, con regole sue proprie e non confondibile con la socievolezza personale: un timidone può essere un social influencer nel mondo digitale.  
Soprattutto l’ “essere social” ha la caratteristica di essere monetizzabile, anche quando il messaggio postato sul media sociale sembra il più intimo e soggettivo possibile.
Prendiamo il caso di due amiche che si incontrano, staccano i cellulari e parlano fittamente di scelte legate alle loro esistenze. Esse producono molto meno “valore social” di due conoscenti che su facebook sviluppano un thread di politica anche fatto di insulti. Dalla secoda situazione si traggono dati utili a tracciare una tendenza e quindi a produrre analisi e dinamiche di comportamento elettorale. Nel primo caso il contenuto, essendo non tracciato, non ha “valore social” eppure può rappresentare un momento essenziale nel rapporto tra due persone.
Dunque, così come milioni di persone in tutto il mondo nei decenni passati sono stati spinti a applicare alle loro scelte e ai loro comportamenti una logica di “mercato”, oggi milioni di persone sono spinte a ragionare in termini “social”. È un bene o un male? Non esiste una risposta univoca. Che il mercato abbia aiutato milioni di persone ad uscire dalla povertà è un fatto come lo sono anche le condizioni di sfruttamento in cui ancora vivono tante altre decine di milioni di persone a causa delle “logiche di mercato”. Quando interagiamo in termini “social” dobbiamo essere consapevoli che stiamo producendo e regalando valore a chi utilizzerà quelle interazioni. Finquando riterremo che il vantaggio che ne otteniamo è maggiore di quanto regaliamo nessuno porrà dubbi. Il fatto divertente è che quasi nessuno di noi conosce il controvalore del nostro "essere social" e veniamo costantemente persuasi che “essere social” sia un valore di per sè. Pensate, per parallelo, a come le tematiche relative alla privacy abbiano perso vigore e urgenza all’interno del dibattito pubblico mentre al contempo i sistemi di tracciamento delle nostre vite diventavano sempre più raffinati. Il sistema Prism scava nelle vitedigitali degli europei, cosa vietata negli USA: avete sentito il Garante della Privacy o il Governo italiano inoltrare una pesante protesta all’amministrazione Obama? Non solo perché ci troviamo, noi itaiani, in una posizione di minorità economica  politica, ma anche perché i cosiddetti “nativi digitali” under 30 sono in genere poco sensibili verso la tematica.
Ecco, torniamo al punto di partenza: la persuasione diffusa è che “bisogna essere assolutamente social” ma siamo sicuri di sapere cosa rischiamo di perdere attraveso il nostro ”essere social”?