mercoledì 16 dicembre 2009

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martedì 15 dicembre 2009

Professionisti senza identità


Due domeniche fa sul Sole 24 ORE Aldo Bonomi rifletteva sulle contraddizioni in cui si ritrovano i professionisti della conoscenza.

Al di là dei risultati di un'indagine sociale presentati, il passaggio più significativo era il seguente: “Emerge una coscienza triste del proprio individualismo. Dell'essere stretti in un limbo in cui non si riesce a fare il salto verso la condizione di capitalisti personali e si teme di rimanere intrappolati nella condizione di cognitari più precari che professionisti” Bonomi si augura che possa emergere la figura che, orrendamente, chiama del “Commartigiano”, ovvero un professionista capace di vendere quanto produce. Chiusura forzata e riduttiva di un tema e di un articolo che meritava altro epilogo.

In realtà questo arcipelago di professionalità cerca innanzitutto una sua identità sociale. Le parole e la società sono in enorme ritardo. Se parliamo di operai abbiamo ben chiaro il concetto generale e solo in un secondo momento pensiamo alla distinzione tra generici e specializzati e poi a operai tessili, metallurgici, chimici, minerari, e così via. In questi anni invece abbiamo avuto un rincorrersi evanescente di definizioni quali terziario avanzato, professionisti della conoscenza o dell'immateriale, lavoratori autonomi di seconda generazione, cognitari, capitalisti personali, e nessuno di essi è riuscito ad affermarsi come capace di dar conto della variegatezza cangiante degli ambiti di applicazione di queste forme di conoscenza. Riuscire finalmente a fare marketing di se stessi o a elaborare un nuovo modello di welfare o a trovare finalmente una qualche rappresentanza sindacale sarebbero le naturali conseguenze di una identità e di una legittimità sociale cui oggi si aspira senza cercarle.

Ma chi dovrebbe elaborare l'identità? Gli studiosi accademici hanno spesso fatto un lavoro importante di individuazione e valorizzazione di queste soggettività, ma spesso non vanno oltre il momento della ricerca, distanti per mentalità, luoghi e condizione di lavoro da questi professionisti. Il sindacato si ritrova a gestire questa complessità incasellando nello storico sindacato dei postali, l'SNC (Sindacato Lavoratori Comunicazione), tanto i dipendenti e i collaboratori dei teatri lirici e di prosa quanto i dipendenti delle televisioni, i webmaster e gli sviluppatori informatici. In più inserisce altre categorie nel NIDIL (Nuove Identità del Lavoro), dove la responsabile ufficio stampa licenziata dovrebbe trovare ascolto assieme al personale di un'impresa di pulizie messo in mobilità. I lavoratori stessi provano a costruire zattere e ponti tra i vari arcipelaghi, affidati alla buona volontà e alla passione di singoli che creano blog, gruppi di discussione, network informali di lavoratori con le stesse qualificazioni. Tutto questo non può bastare per costruire una coscienza diffusa in tutta la società del ruolo e delle competenze di decine di migliaia di professionisti. Vi è però un grande assente, la politica.

Senza una tematizzazione politica dell'importanza dei lavoratori della conoscenza non vi potrà essere né identità condivisa né legittimazione diffusa.

Se ne dovrebbero accorgere i politici, ma prima di tutto i lavoratori stessi, i quali, vittime di una smania individualistica, dimenticano di chiedersi chi sono, come sono visti dal resto della società, e come dovrebbero essere rappresentanti.

domenica 6 dicembre 2009

I parrucchieri virtuali


Il video che riporto sopra è una stronzata, peggio di quella che abbracciava la gente per strada.
I social media non faranno recuperare un senso della socialità che sta svanendo. A occhio l'80% dei post su Fb sono autoreferenziali o narcisisti. L'idea che i social media possano essere la svolta per migliorare la società fa il paio con le attese messianiche che certi presunti guru nutrivano per la diffusione dell'internet. Gli strumenti di comunicazione e di relazione rendono le interrelazioni più rapide ed efficaci. Ma la qualità dell'interrelazione è sempre data dalla qualità dei soggetti coinvolti.
Non possiamo dunque illuderci che in una società sempre più deresponsabilizzata, spoliticizzata, deculturata quale è quella italiana i nuovi media possano essere davvero d'aiuto, anche quando promuovono manifestazioni che rompono gli schemi della comunicazione e della politica tradizionale (al di là degli obiettivi, dei risultati e degli slogan) come il NoBDay. La parte più evoluta della popolazione, quella che ancora riesce ad elaborare un qualsiasi pensiero critico, troverà nei social media e nel citizen journalism alleati insperati per diffondere in maniera innovativa i suoi contenuti. Ma in un paese dove la penetrazione e l'utilizzo di internet è tra i più bassi dell'Europa occidentale, dove la banda larga è un miraggio dei pubblicitari, dove il wi-fi libero è sostanzialmente vietato per legge, non ci sono oggi spazi per sviluppare movimenti come Move On negli Usa od OhMyNews in Sud Corea, capaci di contrinuire all'elezione di presidenti dei rispettivi Stati.
Il che non significa rinunciare. Significa non pensarsi come delle avanguardie ma come delle sentinelle per la diffusione di idee e di una democrazia partecipata e vigile.
Per citare De Andrè, vi saranno sempre troppe "regine del tua culpa" ad affollare i parrucchieri virtuali.