martedì 28 febbraio 2012

La scomparsa degli instant book (e delle case editrici)

 C'era una volta l'instant book, costruito da giornalisti che lavorando di ritagli, archivi, autocitazioni e plagi riuscivano a confezionare un prodotto editoriale che faceva il punto sul caso di cronaca o sullo scandalo o sul trionfo del momento.
Bisognava ovviamente trovare una casa editrice. Vi era quindi una significativa barriera relazionale: solo chi era riconosciuto come competente o comunque "del giro" poteva essere ingaggiato o poteva proporre tali prodotti realizzati a volte in poche settimane.
Grazie a servizi come Vook l'instant book cederà definitivamente il passo all'e-book: chiunque potrà pubblicare e distribuire un suo testo e quello che organizzazioni editoriali rodate erano capaci di realizzare in settimane ora un singolo può distribuirlo e venderlo a chiunque in poche ore.
Il blog di Vook segnala il caso di un libro sulla popolarità del cestista Jeremy Lin realizzato da un giornalista sportivo in soli 72 ore. Se l'instant book si comprava non in libreria ma nelle edicole assieme al quotidiano, adesso l'e-book si compra online e lo si legge sul kindle, o su un qualsiasi altro dispositivo mobile.
E' facile prevedere che nei prossimi anni nuovi software e applicativi consentiranno a chiunque di diventare un piccolo sistema editoriale unicellulare. Siamo oggi ancora nella fase in cui molti scoprono che possono essere essi stessi media (produttori di contenuti e distributori delle medesime) ma tra pochi anni una parte minuscola dell'universo in costante espansione dei fruitori di internet (diciamo un numero che va su molte decine di migliaia a livello mondiale) inizierà a sfornare costantemente prodotti editoriali anche molto complessi.
In queste settimane qualche politico, ingenuo o in malafede, si propone come un tutore degli autori dagli abusi della pirateria digitale e sforna follie retrive come l'ACTA. In realtà lo scontro vero riguarda il controllo dei contenuti e il tentativo di limitare la loro produzione e distribuzione autonoma rispetto ai grandi gruppi multimediali globali. 
Dopo la fine dei quotidiani sarà inevitabile iniziare a parlare anche di fine delle case editrici: tanti autori, artisti, editor inizieranno a saltare le intermediazioni organizzative e distributive e a diffondere i loro contenuti direttamente a chiunque sarà interessato a fruirne.
Non sarà facile ottenere questa nuova libertà. E nemmeno è certo.




domenica 5 febbraio 2012

Gli equivoci dei media sociali


 Ogni epoca ha i suoi slogan equivocati. “Bisogna assolutamente essere moderni”, dichiarava Rimbaud, intendendo una discontinuità epocale e metafisica con i modelli di pensiero e di prassi del passato. E giù invece torme di adulatori del mero progresso tecnico, acritici esaltatori di una scienza illusoriamente considerata neutra e illimitata.  
Oggi “bisogna essere assolutamente digitali” (Being digital, scriveva già nel 1995 Nicholas Negroponte) e ancora di più bisogna essere capaci di essere “social”. Sì, di sfuggita ci si è ricordati che gli esseri umani sono il frutto delle loro interazioni sociali e la società Grubwithus usa il web per organizzare cene tra sconosciuti che vogliono staccare gli occhi dai loro smartphones.
Ogni epoca, insomma, ha gli equivoci che si merita. Quindi tutti oggi sui social media, con la sommessa speranza di uscire poi da essi per vivere di nuovo nel mondo delle relazioni sociali reali.
In questa fiera degli equivoci non fanno eccezioni le imprese che vogliono essere “assolutamente social”. Ma cosa si aspettano le imprese quando investono sui media sociali?
Il committente di solito è un direttore della comunicazione o del marketing che pretende di trattare l’investimento nelle social media relations come un qualsiasi investimento pubblicitario. Deve dimostrare che, nell’arco di qualche trimestre o a volte di poche settimane, quella cifra x ha prodotto quei quantificabili risultati y, z e w. E di parametri numerici al riguardo oggi proprio non ne mancano: numeri e infografiche sono fornite dalla società di consulenza in quantità strabordanti per intimorire anche il consiglio direttivo più tignoso. Quindi alla fine tutti soddisfatti: siamo stati visti tot volte su internet, siamo stati innovativi perché social (o viceversa, così è se vi pare...), magari l’agenzia di comunicazione ha ricevuto qualche premio per quella campagna grazie all’amico in giuria. Budget incrementato per l’anno successivo, incarico rinnovato.
Ma possiamo valutare l’effetto della presenza sui social media sulla base di principi nati in campo pubblicitario come quelli di costo/contatto, visibilità, notorietà, persuasione o cambiamenti del comportamento d’acquisto all’interno di un periodo definito di tempo?
Ritengo al contrario che la comunicazione sui social media debba essere innanzitutto relazionale (dopotutto gli americani da anni parlano di conversation), per cui dimentica di un ritorno economico immediato e focalizzata invece ad accrescere la reputazione e la credibilità dell’impresa e a rafforzare la fiducia e lo scambio di informazioni tra essa e il suo pubblico.
Se si confrontano i termini usati nelle ultime 2 frasi si noterà che tra l’approccio pubblicitario e quello relazionale individuo differenze semantiche alquanto profonde: alla notorietà si potrebbe opporre la reputazione; alla persuasione la fiducia; al comportamento d’acquisto immediato lo scambio di informazioni (conversazione) prolungato nel tempo.
La filosofia con la quale tutti i direttori della comunicazione dovrebbero avvicinarsi  ai media sociali dovrebbe essere più simile alle attività di relazione e accreditamento che sviluppano negli anni i professionisti, i quali investono tutti i giorni in relazioni personali, in credibilità, in riconoscimento pubblico coscienti che solo attraverso azioni progressive e cumulative, confermate dai risultati conseguiti quando vengono ingaggiati, possono costruire quella reputazione professionale che garantirà loro introiti stabili. Evidente che quest’approccio non può definire metriche e parametri univoci, così come un professionista non sa mai se quel pranzo o quell’articolo porteranno dei nuovi ingaggi e quando. Ma nessuno rinuncerebbe a sviluppare contatti potenzialmente utili per la carriera o per la professione solo perché non si ha certezza di un ritorno a breve.    
La comunicazione digitale sociale, sintetica, multimediale, interattiva, “real time” richiede in realtà anni per produrre risultati stabili e duraturi. Riusciranno i manager della comunicazione e del marketing a non farsi irretire da chi promette risultati sfavillanti e immediati grazie ai media sociali?
Gli equivoci, dopotutto, sono spesso frutto di scorciatoie mentali.