sabato 24 gennaio 2015

Lo Scuru: un poema interiore




 Nella sua analisi di “Storia dell’occhio” di Georges Bataille, Roland Barthes contrappone poema e romanzo: all’”immaginazione timida” del secondo, “che non osa dichiararsi se non sotto cauzione del reale”, il critico francese contrappone la potenza del poema, che dice “ciò che non potrebbe accadere in nessun caso, salvo che nella regione tenebrosa e ardente dei fantasmi, regione che, proprio per questo, esso è il solo a poter designare, (...) esplorazione esatta e completa di elementi virtuali”.
Leggere dunque Lo Scuru come un romanzo e non come un poema porta a incomprensioni gravi, che pure sono apparse in queste prime settimane dalla sua uscita. Valutare un testo, una scrittura, e volerlo per forza incasellare in quello che secondo un critico dovrebbe essere un romanzo (il cui successo nei secoli sta proprio nella sua natura multiforme) è meno un errore che un indizio di scarsa fiducia nella letteratura.
Poema interiore dunque, che evoca un mondo ctonio e la lotta di Razziddu Buscemi per affrancarsi da esso, pur essendone parte. Racconto di quel fondo magico che la religiosità barocca e controriformistica meridionale ha protetto dalla razionalizzazione nordica del sentimento religioso attuata dal Protestantesimo, la quale invece guardava verso l’alto per scrutare un dio tanto distante da risultare al fine inaccessibile. Il cattolicesimo mediterraneo è invece assediato dalle infinite manifestazioni di un abisso ancestrale, per difendersi dal quale ha prodotto per secoli muraglie di santini, cortine di devozioni, raccolte di effigi di antenati e di mostri, amuleti contro le potenze oscure che abitano l’anima del mondo e delle persone.  
Il Signore dei Puci di Butera, con cui il giovane Razziddu ingaggia una lotta letale, è la statua di un Cristo trasformato in un mostro dalle energie ancestrali che attrae e diffonde. Solo il cattolicesimo barocco ha saputo intuire la coessenza in fenomeni religiosi arcaici di potenze al contempo salvifiche e infernali, e renderle manifeste in processioni oscure come quelle della Settimana Santa, quando il sacro ritorna buio e indistinguibile, inquietante e disperante. Una messinscena oscura, dove le statue sono illuminate da baluginii fiochi e diventano specchi mobili e allusivi di un orrore indicibile e senza fine, una oscurità tuttoavvolgente, dimensione priva di temporalità perché antecedente al tempo. 
L’analessi narrativa introduce a una biografia antespettiva dell’autore verso una fuga vageggiata nei territori della propria ascendenza letteraria ideale, di una lotta interiore di Razziddu mai risolta nemmeno in punto di morte. È il legame salvifico con l’amata Rosa, la cui morte riapre l’abisso interiore del protagonista ormai anziano cui riemergono le antiche visioni, che lo spinge a proiettarsi con la fuga nella modernità nordamericana fondata sulla razionalità giuridica. Una razionalità agognata dal giovane Razziddu, lui “creatura di zolfo” per bocca della nonna, come soluzione e pacificazione dei conflitti che lo circondano, eppure dall’esito vano: “Così il ragazzo (...) decise di franare col tempo, osservare, e ancora frenare, tuculiare la macchina di legno e poi spicchiare la fisica provando a risorgere in un’altra epoca o secolo in cui la superstizione sarebbe stata debellata da Butera e un’emulsione di lucidità purissima, di giubilo, avrebbe ricreato i rapporti tra i paesano secondo una formula matematica” (pag.90); “ogni oggetto, dentro Butera, era dunque una particellare definizione del fallimento di un’evoluzione moderna” (pag.88).
L’analessi consente il racconto di un universo metamorfico dove la maga Minica invita Razziddu a non uccidere (“U cutieddu. Scappa. Non farlo”, pag. 44) e settanta pagine dopo si capirà che si tratta di una preghiera a non uccidere il suo doppio Nitto. Universo metamorfico prodotto altresì da una lingua che non è tocco di colore, ma è potenza espressiva di una personalità in fieri sospesa tra instintualità e razionalizzazione, tra fedeltà a terra e famiglia e necessario e inevitabile tradimento, tra urgenza espressiva e ordine sintattico. Dunque una lingua non folcloristica, certo di difficile comprensione, ma che traduce il magma non stabilizzato di un racconto fatto da forze violente, una lingua di cui seguire i suoni duri, estranei, come allusione di un mondo non ancora toccato da un ordine razionale della parola.
Una lingua in cui termini e costrutti in siciliano stretto rappresentano fratture della superficie linguistica tradizionale, della razionalità confortante ordinaria, geyser da dove far fuoriuscire la violenza di un conflitto interiore e e le pulsioni di un mondo arcaico, potente e spietato.  Con la sua scrittura multiforme per linguaggi, registri e ascendenze letterarie, Orazio Labbate non si limita a narrare una storia, ma scava un fondo rimosso, raschia il banale dai significanti più adusati, piccona la linearità rassicurante di tanti romanzetti d’esordio.
Ecco, l’esordio. Poco ci si interroga su cosa spinga una persona a rompere la timorosità e a dire, e a dire in pubblico. Per me emulazione ed esplorazione sono le due dimensioni che sommuovono il vero talento. Se Razziddu pescatore è un fratello minore di Suttree di Cormac MrCarthy (evidenzio la passeggiata dopo il mercato delle pagine 65-66 e il deliquio delle pagine 30-31), la lingua che ha plasmato Orazio Labbate è strumento di esplorazione interiore e sociale, ardua perché il fondo che intende evocare precede la sintassi e il lessico che riordinano e nascondono gran parte del nostro io.
Lo Scuru è lotta, entusiasmo, passione, inquietudine, ricerca, fuga, delirio. Ma soprattutto ambizione di fare letteratura e di dire tramite essa una parola originale sul mondo e sull’esistenza.