mercoledì 18 aprile 2012

La comunicazione crea valore? /2



In tempi di crisi strutturale non solo dell’economia ma di un intero modello sociale non dovremmo ripensare anche il ruolo della comunicazione?
Se si assume che le discipline aziendali che negli ultimi decenni si sono più sviluppate e diffuse nella società sono state la finanza e la comunicazione non è forse giunto il momento di mettere in discussione anche le conseguenze negative di certe pratiche di comunicazione?
Quali valori, principi, orientamenti hanno messo in atto i processi di comunicazione in cui, come fruitori passivi o come coscienti realizzatori, siamo stati coinvolti e che abbiamo in diverse gradazioni accettato?
Grandi sforzi sono stati messi in atto per definire lo statuto professionale e l’accreditamento aziendale del comunicatore così come  la promozione della centralità strategica della disciplina nell’impresa. Cito al riguardo per i non addetti il Bled Manifesto, gli Stockholm Accords o il modello Building Belief recentemente presentato in Italia da Toni Muzi Falconi: una doverosa riflessione sul come e sull’essere della professione. Eppure poco si è studiato quanto la comunicazione agisca su quella che possiamo definire l’ideologia della società, per quanto in ultima istanza il cambiamento delle idee è l’obiettivo più ambizioso cui un comunicatore possa aspirare quanto mette mano a una campagna.
Ecco perché, così come per la finanza, dobbiamo chiederci: la comunicazione d’impresa (ed escludo subito la pubblicità e il marketing tradizionale) ha creato valore duraturo per la società in questi anni?
La comunicazione di impresa è stata fortemente utilizzata per promuovere alcune trasformazioni della percezione comune, diciamo pure del senso e dei principi sulla base dei quali gli individui definiscono le loro scelte.
Passo in rassegna alcune di queste trasformazioni:
- la promozione di un processo di infantilizzazione degli adulti, spinti a ritenere giustificati se non normali i processi di deresponsabilizzazione in molti ambidi dell'esistenza, alla ricerca sempre e comunque dello divertimento, all'interno di un progressivo scivolamento dalla dimensione del cittadino consapevole e informato verso il mero status di consumatore onnivoro di prodotti ed esperienze “svaganti”
- l’aziendalizzazione della società, del linguaggio e in particolare delle aspettative di una generazione alla quale oggi l’economia privata offre prospettive incerte se non vero e proprio sfruttamento
- la trasformazione degli studenti superiori o universitari da discenti a meri clienti di prodotti formativi
- l’esaltazione di un individualismo asociale e dunque apolitico, per cui sisocializza solo attraverso consumi condivisi “We are trapped in an individualistic consumer culture in which the public goods that belong to us as citizens are not part of the accounting” (Consumed, di Benjamin R. Barber)
Non intendo stendere un elenco esaustivo, anzi qualche lettore di certo proporrà altre trasformazioni e ambiti in cui la comunicazione di impresa ha avuto grande peso. Quello che per ora mi preme è cercare di capire come è stato costruito un sistema di idee, di persuasioni, insomma un senso comune che ha, almeno implicitamente, sostenuto e giustificato comportamenti e scelte individuali quanto collettive che hanno portato a mettere in crisi il compromesso sociale su cui si sono rette molte società europee per sessant’anni.
E infine l’ultima domanda: la comunicazione può aiutarci ad uscire dalla crisi?

lunedì 2 aprile 2012

La comunicazione crea valore? /1



Si crea valore attraverso l’induzione di senso.
Non starò a ragionare se si tratta di valore reale o di valore percepito. Oggi questa è una discussione senza possibili sbocchi poiché in campo aziendale il valore è il prezzo monetario o il costo opportunità che un soggetto è disposto a sopportare a fronte della fruizione di un bene o di un servizio.
Dunque è il senso, ovvero la costruzione cognitiva, le attese esperienziali, la fruizione simbolica che è all’origine di ogni valore che viene poi messo a disposizione sui mercati evoluti. Il senso, etimologicamente, dà una indicazione di marcia, può orientare chi ne fruisce verso certe scelte che sono ritenute capaci di incrementare il proprio benessere o arricchire la propria esistenza: si sa che gli individui meno consapevoli di una società secolarizzata trovano nei consumi un senso (intesi come obiettivi e gratificazioni verso cui indirizzarsi) all’esistenza. La ricerca di senso è passata però dall’ambizione a un mero possesso materiale al desiderio di fruire di contenuti o di esperienze immateriali.
La costruzione di senso è la capacità di rispondere a una richiesta del fruitore che va al di là di una scelta dettata da bisogni fisici immediati. Nel mercato-mondo ad alto potenziale (che non è solo quello cosiddetto “occidentale” ma è composto da tutti gli acquirenti affluenti) i soggetti cercano costantemente attraverso transazioni economiche, informative o relazionali un senso che renda la propria esistenza più “piena”, più “completa”, insomma meno ordinaria. Che si proponga una degustazione di cioccolato di alta gamma o la riscoperta di frutta biologica, che si offra la possibilità di acquisire od organizzare informazioni utili o divertenti attraverso uno smartphone, che si venda la possibilità di relazioni affettive o sessuali attraverso appositi siti web, al centro vi è la necessità di centinaia di milioni di individui nel mondo di processare le informazioni in maniera competente e di acquisire senso attraverso il consumo di un insieme cognitivo che può attivare anche funzioni sensoriali
Per questo il concetto di senso che provo ad esporre non deve essere inteso solo come un elemento cognitivo ma anche come uno degli elementi percettivi basilari di ogni esistenza: come dimostrano le più recenti ricerche di neuromarketing l’attivazione di determinati sensi (l’olfatto, per esempio) attiva la produzione di serotonina e di altri neurotrasmettitori che incrementano le sensazioni di benessere e di entusiasmo. Gli oggetti o i servizi a più alto valore aggiunto comprendono un forte coinvolgimento sensoriale.  Vedere un gran premio di formula 1 sulla tv di Stato o su una pay tv sono esperienze radicalmente diverse anche da un punto di vista sensoriale ed è per questo che viene loro attribuito un valore nettamente diverso.
Alla classica diade marxiana tra valore d’uso e valore di scambio si può aggiungere il valore di senso, elemento pregiato proprio di un’economia che si basa sugli scambi di informazione (contenuti) e di relazione tra individui che sono essi stessi produttori e non solo passivi fruitori di questi scambi.
Quale è il ruolo del comunicatore in questo processo? Il comunicatore è capace di indurre senso o solamente deve relegarsi a trasferire contenuti decisi spesso da altri?
(continua)