lunedì 26 novembre 2007

Verso i distretti dell'immateriale

Fino a quando potrà volare il calabrone Italia? Da un punto di vista aerodinamico il calabrone non potrebbe volare, così come, grazie alla felice analogia coniata da Beccatini, l'Italia dei duecento distretti non dovrebbe avere, a rigore di logica economica, le risorse economiche e umane per affrontare, e spesso vincere, la competizione internazionale.
Eppure oggi, sotto i colpi di una crisi che ha colpito tante capitali del manifatturiero, da Prato a Castelgoffredo, da Manzano a Biella, ci si inizia a chiedere fino a quando i distretti potranno reggere, con il rischio di implodere a catena nell'arco dei prossimi anni. Eppure vi sono realtà che ce l'hanno fatta. E sono le realtà (troppo poche) che hanno capito che bisogna affiancare la grande qualità, il tocco artigianale, le intuizioni capaci di anticipare tendenze con la capacità di trasferire significati, valori, identità, tradizioni agli acquirenti
Ma sono ancora troppi i piccoli e medi imprenditori italiani che nell'era dell'economia della conoscenza credono ancora di poter competere con la forza del prodotto e comprimendo i costi.
Ci vorrebbe una rivoluzione culturale, che aprirebbe spazi e posti di lavoro a tutti i lavoratori dell'immateriale, capaci di costruire un sistema di significati attorno a oggetti fatti con grande perizia. Ma invece di aspettare le rivoluzioni basterebbe un'iniziativa molto più semplice. Le associazioni degli imprenditori, a vari livelli, potrebbero ingaggiare giovani lavoratori dell'immateriale per metterli a disposizione delle imprese piccole e medie che vogliono riformulare le loro proposte al mercato, lungo tutta la filiera produttiva e fino ai servizi post vendita.
Una grande immissione di creatività, di passioni, di innovazione, insomma. Per dare nuova vita ai distretti, orientandoli verso l'economia della conoscenza. E anche per evitare l'enorme spreco o la sotto-utilizzazione delle loro intelligenze cui tanti lavoratori dell'immateriale ancora sono costretti ad assistere.

lunedì 19 novembre 2007

La forza dei legami deboli

Il titolo di questo post richiama quello di un famoso saggio di Mark Granovetter, sociologo americano tra i più importanti al mondo.
Granovetter già negli anni Settanta scoprì che nella ricerca di un lavoro le relazioni deboli, i contatti occasionali, insomma quelli che noi italiani chiamiamo conoscenti per distinguerli dagli amici, sono in realtà quelli più utili.
Ognuno di noi ha un'area di relazioni densa e prossima al proprio sé, composta dalle amiche e amici più intimi, con cui condividiamo passioni, interessi, affinità. Poi abbiamo i conoscenti, tanti o pochi a seconda dei casi, di cui conosciamo solo qualche aspetto. I conoscenti hanno a loro volta un'area di amicizie dense e intime attorno a loro. Pertanto i conoscenti sono i realtà dei "ponti" verso altre reti di relazioni di amicizia, dove vengono elaborati e diffusi interessi e nuove idee.
Secondo questo schema confermato da molte ricerche chi ha poche amicizie fidate e riduce al minimo le "conoscenze" finisce per restare escluso dalle ultime idee e tendenze ma incontra anche più difficoltà a cercare o cambiare lavoro.
I lavoratori dell'economia della conoscenza, gli immateriali come li chiamo io, hanno la necessità di costruire e ampliare continuamente le loro reti sociali così come devono investire in formazione continua.
Per questi lavoratori il confronto con altri percorsi lavorativi ed esistenziali diventa fondamentale per arricchire la loro conoscenza della società in cui operano e delle problematiche cui verranno chiamati a proporre soluzioni in termini di comunicazione, di marketing, legali, politiche, tecnologiche, di ricerca tout court.
Sulla base di questo schema potremmo anche dire che se i politici italiani sanno solo parlarsi addosso è anche perché non hanno più meccanismi di produzione di legami deboli con la società: si parlano solo tra loro, e raramente e in ritardo colgono le trasformazioni e le attese della società.
Ma anche di questo possiamo parlarne martedì 20 alle ore 20.30 all'incontro del network dei lavoratori dell'immateriale.


domenica 18 novembre 2007

Daniele Luttazzi

A volte il male che subiamo fa l'effetto di un veleno paralizzante: continuiamo a rimuginare sulle offese subite e rischiamo di non evolverci più, fermi a elaborare una sofferenza che riteniamo oltre modo ingiusta. Daniele Luttazzi rientra in questa situazione: potrebbe liquidare le sue vicissitudini considerando che in un paese di mediocri con una classe dirigente ancora più mediocre il suo talento e la sua satira non potranno mai essere valorizzati come meritano. Eppure in ogni puntata di Decameron Luttazzi ricorda il torto subito, e sono le parti meno brillanti del programma.
Per il resto Luttazzi ci dimostra che sa fare la satira più spietata che esista oggi in Italia. Chi lo considera un comico non ha capito nulla di lui. La migliore definizione è forse quella di autore satirico, capace di ricordarci la realtà dei fatti e delle esistenze troppo spesso mistificata dai media studiatamente autoreferenziali.

sabato 10 novembre 2007

Un omaggio musico-logico

Ecco il grande Glenn Gould che suona il Contrapunctus 1 da l'Arte della Fuga di Bach.
Per ricordarci che c'e' una dimensione verticale nella nostra esistenza.


Pigrizie mentali 2

Le pigrizie mentali che si ritrovano nelle aziende o nella societa' italiana potrebbero costituire una rubrica a parte di questo blog tanto sono frequenti. Chissa' che non lo diventeranno, ma in questo chiedo il supporto dei lettori con segnalazioni e commenti.
Ed ecco allora a voi un bell'esempio di pigrizia mentale. Nell'impresa fordista gli operai alla catena di montaggio erano totalmente fungibili: che fossero immigrati polacchi o irlandesi oppure emigrati calabresi o veneti contava poco, anzi, meno potevano parlare tra loro e piu' erano concentrati sulle loro mansioni parcellizzate e ripetitive. Quindi le braccia di uno valevano le braccia di un altro, e vi era un esercito industriale di riserva pressoche' infinito da utilizzare. Se gli operai spegnevano il cervello e la lingua durante il lavoro era anche meglio.
La cosa divertente e' che tanti dirigenti o capiazienda si comportano nella societa' della conoscenza come se si vivessero ancora ai tempi di Henry Ford. Per questi perspicacissimi personaggi uno stagista (ma anche un collaboratore) vale un altro, tanto l'unica variabile significativa e' il salario/rimborso e si trovera' sempre qualche giovane preparato disposto a lavorare per un compenso poco piu' che simbolico.
Se per tanti dirigenti l'unico parametro di riferimento e' la bottom line del budget, cosa contano i contributi che in termini di relazioni, contenuti, idee, visioni, passioni possono dare i diversi collaboratori? Di fronte al Dio Budget e alla trimestrale quello che conta e' un numero, anche se ottenuto a forza di un impoverimento del capitale intellettuale dell'azienda.
D'altra parte cosi' si sta impoverendo l'intera nostra nazione.
Buon viaggio, cervelli in fuga!

mercoledì 7 novembre 2007

Pigrizia mentale

Appena lunedì scorso ho illustrato a un'aula di studenti di un Master in "Marketing, Comunicazione e Nuove Tecnologie" il potenziale comunicazionale dei nuovi media sociali. Naturalmente vi è stato chi ha storto il naso quando ho presentato Facebook come uno dei modelli più interessanti in tal senso. E invece è di oggi la notizia che già sessanta aziende hanno firmato un accordo per utilizzare a fini promozionali il sistema di social networking creato nel 2004 da Mark Zuckerberg:

http://www.repubblica.it/2007/11/sezioni/scienza_e_tecnologia/facebook-pubblicita/facebook-pubblicita/facebook-pubblicita.html

C'è chi ancora parla di opinion leaders come obiettivo principale della comunicazione d'impresa. Non hanno capito che oggi i nuovi influenzatori non si trovano sulle cattedre universitarie o negli editoriali dei quotidiani, garantiti dal ruolo o dal prestigio, ma possono diventarlo tutti coloro che sapranno costruirsi una rete di relazioni, web o nel mondo reale, basata sulle due risorse essenziali della nostra epoca: contenuti e relazioni.
Eppure sono certo che molti docenti nei master post laurea continueranno a parlare degli opinion leaders vecchia maniera... Beh, la pigrizia mentale non la sopporto proprio, si capisce?

P.S.: questo è il mio profilo su Facebook http://www.facebook.com/profile.php?id=525392730

domenica 4 novembre 2007

Che fine faranno i comunicatori?

Diciamo che finora vi sono stati tre modi di fare e di intendere la professione del comunicatore in Italia: l'organizzazione di eventi, la relazione con i giornalisti, l'elaborazione di idee più o meno "creative".
Come sempre si confondono i mezzi con le finalità della professione, grazie anche alla scarsa attitudine alla comunicazione dei committenti, i quali ti chiedono un evento per autocelebrarsi, di essere visibili sui media (con un'intervistona sul quotidiano prestigioso se possibile), di trovare qualche idea per distinguersi dal concorrente.
Se il quadro è questo inevitabilmente la selezione dei professionisti della comunicazione avverrà sulla base di amicizie, consorterie, parentele, simpatie, sentito dire e millanterie varie. E se funziona così allora conta più ingraziarsi potenziali clienti e operatori dei media piuttosto che puntare alla formazione dei professionisti interni all'agenzia. Di stagisti in gamba se ne trova a iosa: basta cambiarli ogni sei mesi. Perché far crescere qualcuno col rischio che diventi troppo bravo e accetti un ingaggio migliore? E da qui oggi non se ne esce, basta a dimostrarlo i tantissimi giovani comunicatori sottopagati.
In realtà l'unico modo per accreditare questa strana professione è quello che vado ripetendo da anni nei corsi post laurea e per manager: diventare consulenti capaci di comprendere e operare a livello di strategia aziendale e di individuare le forme migliori per comunicare i messaggi e i valori dell'impresa per cui si lavora, nella maniera più efficiente possibile.
Ma chi può guidare questa evoluzione? Non i grandi capi azienda del settore, e men che mai gli operatori dei media, i quali si propongono ancora oggi come l'unico intermediario verso i pubblici delle aziende.
L'evoluzione e la credibilità futura dell'essere comunicatori dipende solo dai giovani professionisti, da quanto vorranno lottare per affermare la loro professionalità.
L'alternativa è l'attuale, totale fungibilità, e la conseguente, inevitabile precarietà.

venerdì 2 novembre 2007

Comunicare o fare comunicazione?

Per decenni comunicare per un'azienda ha significato solo due cose: pagare una costosa campagna pubblicitaria o pagare un'agenzia di comunicazione per affidarle le relazioni con i media, la gestione di eventi, ecc. L'azienda non comunicava direttamente con i suoi clienti ma solo attraverso successive e numerose mediazioni: il rapporto con l'agenzia, la capacità dei professionisti dell'agenzia di comprendere i bisogni dell'azienda, la scelta dei media, la scelta dei contenuti, giù giù fino alla capacità soggettiva di attenzione e decodifica dei messaggi dei singoli clienti. Era un po' come il gioco del telefono che si fa da bambini: più il messaggio è lungo e complesso tanto più arriva distorto all'altro capo del telefono. E di conseguenza il messaggio doveva essere immediato, semplicistico, basato su pochi concetti e sui poche pulsioni di base di un pubblico considerato solo nei suoi desideri più ancestrali. Inoltre nulla garantiva (meglio, garantisce) l'azienda che il budget che essa affida alle agenzie di comunicazione e pubblicità non venga da queste ultime usato anche per garantire visibilità pubblicitaria o attenzione da parte dei media ad altri loro clienti meno celebri e danarosi.
La domanda che si dovrebbe porre ogni comunicatore o professionista del marketing è: come posso parlare direttamente ai miei clienti potenziali, facendo passare i miei contenuti, proponendo loro le mie offerte commerciali, coinvolgendoli nel mondo valoriale dell'impresa per cui lavoro?
Se invece di pensare ai mezzi (la campagna pubblicitaria, l'articolo sul giornale), i miei colleghi si fermassero a pensare di più a fini del nostro lavoro forse anche lo statuto della nostra professione inizierebbe a uscire dai contorni indefiniti ed equivoci che ancora lo segnano.