lunedì 25 luglio 2011

lunedì 18 luglio 2011

Una modesta proposta a sostegno delle intelligenze locali


In tempi di crisi dei bilanci statali e locali una politica mediocre infierisce con esplicito sadismo sulle attività culturali e di ricerca, le cui risorse vengono tagliate con la miopia di un ragioniere tardo che non ha mai capito cosa e chi c’è dietro i numeri che compila.

Le attività culturali, la ricerca di base, le iniziative che diffondono quel bene comune per eccellenza che è la conoscenza hanno bisogno di nuovi modelli non solo per raccogliere finanziamenti ma anche per sviluppare consapevolezza collettiva della loro importanza, proprio in un momento in cui una certa vulgata tende a considerare la cultura un orpello buono e utile solo in tempi di vacche grasse.

La proposta non è del tutta originale ma ritengo molto facile da realizzare ed economicamente sostenibile specialmente nelle piccole realtà locali o di quartiere. Essa punta a sostenere non le attività di ricerca complesse che richiedono grandi investimenti in capitale fisso (macchinari, laboratori, staff altamente professionalizzati) e nemmeno le attività culturali di eccellenza, quali le stagioni teatrali, liriche e sinfoniche oppure le grandi mostre. Semmai la mia proposta punta a incentivare le risorse intellettuali locali, che spesso sono destinate all’emigrazione o a un limbo pervaso dalla frustrazione di non venire valorizzati.

Uno studioso giovane e senza grandi referenze che intende sviluppare una ricerca su un tema antropologico o storico o economico di ambito locale si trova spesso nell’impossibilità di ottenere risorse, condizione che condivide con tanti altri colleghi ricercatori in campo musicale, teatrale, letterario, ambientale e così via. Il ricercatore bussa a tante porte: quella porta è destinata ai grandi accademici, quell’altra tratta solo di cultura letteraria del Quattrocento, quell’altra è gestita dalla famiglia del cattedratico, quell’altra è riservata agli amici di.

Il problema potrebbe essere scavalcato nel modo seguente. Se una ricerca costa tra spese vive e onorari dello studioso 3.000 euro, il Comune invece di dire che non ha soldi può contribuire con un minimo, per esempio 500 euro, e farsi promotore e garante di una sottoscrizione di associazioni, altri enti locali e privati che sono interessati a sostenere quella ricerca. In cambio tutti i sottoscrittori fruiranno gratuitamente del risultato della ricerca, sia esso un saggio, un libro, uno spettacolo teatrale, una mostra fotografica o delle tracce audio, risultato che comunque dovrà essere messo a disposizione di tutti con licenza Creative Commons.

Naturalmente anche associazioni e privati cittadini possono farsi promotori di queste sottoscrizioni. Chi promuove la sottoscrizione sarà anche il garante della realizzazione o meno del progetto di ricerca, anche nei confronti di chi ci metterà solo 5 euro, che dovrà venire rimborsato in caso di fallimento della racolta fondi.

Quali sarebbero i vantaggi di questo modello? Innanzitutto i comuni potrebbero far fronte alle scarse risorse a loro disposizione, distribuendo le risorse su molti progetti di ricerca micro ma fortemente legati a certi territori e a certi contesti sociali e convogliando su di essi le risorse di altri soggetti della comunità. La comunità stessa vedrebbe accresciuto il suo capitale intellettuale, grazie alle ricerche e grazie al libero accesso ai risultati delle ricerche stesse. I giovani ricercatori, speso di nicchia, avrebbero l’opportunità di “pubblicare” in senso lato, ovvero rendere pubblico il frutto di ricerche altrimenti per loro inaffrontabili.

Si innesterebbe, come risultato non secondario, un circuito di sostanziale gratuità nella produzione e distribuzione del sapere.

Questa modesta proposta non punta a risolvere l’incuria di Pompei o i tagli ai teatri lirici quanto semmai a promuovere il rafforzamento del capitale intellettuale locale. In tempi di crisi economica esso è il miglior investimento che le comunità locali italiane possono fare.

mercoledì 13 luglio 2011

La mentalità Cip


Piccolo quiz a uso dei miei lettori.

Dove si possono trovare tutte assieme nella stessa pagina web le seguenti affermazioni?

a) Facebook è la nuova religione

b) Vacanze intelligenti? Destinazione Silicon Valley

c) Uno startupper? Deve pensare in grande, essere ambizioso

Ovviamente solo sulla versione italiana di Wired, la bibbia della mentalità Cip in Italia.

Per mentalità Cip (traslitterazione in italiano di chip e di cheap e traduzione del verso degli uccellini, in inglese tweet) intendo quella banalizzazione enfatica della cultura digitale, quel sentirsi migliori e all’avanguardia perché si usa twitter o l’ultima app dell’iPhone, quella confusione tra comprensione di una tecnologia e suo mero uso, quell’approccio semplificatorio come se tutto possa ridursi a una routine semplificata gestita da un software fatto partire da un tasto, quella esaltazione acritica di nuove parole d’ordine quali immediatezza, partecipazione, condivisione, trasparenza senza cercare di capire i limiti, le ambiguità e anche i pericoli che la declinazione di tali concetti attraverso i media sociali implica.

I portatori della mentalità Cip si sentono innovatori e anticonvenzionali. E invece sono dei conformisti che oscillano tra pregiudizi e banalità in salsa digitale.

Cerchiamo dunque di raccontare alcuni esempi di mentalità Cip.

1. La contrapposizione ridicola tra “nativi digitali” (termine che in italiano sembra un’etichetta appicciccata da un etnografo a qualche tribù scoperta di recente) e tutti gli altri utenti internet, che parte dal presupposto che gli tutti altri siano per forza chiusi, retrivi, incapaci di usare con appropriatezza le risorse tecnologiche. Leggete cosa scriveva a riguardo il 15 giugno 2009 Riccardo Luna gonfiandosi come una rana: “E’ l’alba di un nuovo mondo, di una nuova Italia. Se alziamo lo sguardo possiamo già scorgerne i confini. E i futuri leader. Hanno meno di 24 anni, sono uno diverso dall’altro, hanno paure e speranze spesso contraddittorie.
Vorrebbero cambiare tutto ma si muovono con una prudenza che è già diffidenza; sono affascinati dal progresso ma pretendono di soppesare prima attentamente i rischi delle nuove tecnologie, senza deleghe in bianco a nessuno, nemmeno agli scienziati. Vorrebbero che a decidere fossero piuttosto ciascuno di loro e tutti assieme. I cittadini: questa è democrazia diretta.” Cito il passaggio finale di questo delirio futurologico di questo novello Mosé, già in trance pronto a dividere le acque: “Ne sentiremo parlare di questa generazione. Cambierà il nostro futuro. In meglio.” A Roma I concittadini di Luna risponderebbero con un soave “e sti cazzi?” E ci sarebbe da sorridere per tanta ingenuità o tanta stolidità intellettuale (uno che usa le tecnologie digitali sin da bambino non è detto che sia più aperto al mondo e ai suoi simili, le variabili sono infinite, come per un ragazzo che cresce in un quartiere multietnico: può diventare tanto un mediatore culturale tanto un naziskin), se non fosse che questa mentalità Cip si è diffusa attraverso i social media e rischia di far cadere tante persone in un equivoco classico: confondere la tecnologia con il progresso.

2. Tutti o quasi con un blackberry o un iPhone. Bene: essere “always on” è sicuramente una necessità aziendale, e spesso anche personale. Ma quante volte si lavora davvero in “real time”, reagendo subito alle email che si ricevono? E se si sta in riunione e non ci si può muovere? E se valutiamo quel messaggio non importante perché distratti da altro? E se non lo leggiamo per semplice sovraccarico di informazione? La reazione a quel messaggio arriverà comunque dopo ore, nonostante il blackberry. Insomma, non è la tecnologia di per sé che ci rende professionisti capaci di reagire in “real time” (come spiega David Meerman Scott nel suo ultimo libro) ma un’attitudine mentale che hai o non hai, a prescindere dalla collezione di blackberry, iPhone, iPad e tablet vari che sfoggi.

3. E così negli ultimi anni certi giornalisti hanno inventato il “popolo del web”, (giusto per non farsi mancare la moda dopo il popolo della notte e il popolo dei fax), di cui oltre all’etichetta non si sa nulla. Evocato sempre a sproposito per commentare questo o quel fatto, questo popolo semplicemente non esiste, dato che non è un popolo ma solo dei cittadini utenti di una tecnologia di comunicazione. Ma l’imprecisione è utile per semplificare come anche per far credere che vi sia una comunanza profonda creata e garantita dal web. Nelle ultime campagne elettorali per un normale processo di diffusione tecnologica si sono usati anche in Italia i social media in maniera intensiva per fare propaganda. Non è che sia arrivato da qualche landa sconosciuta il misterioso popolo del web: erano semplicemente i cittadini consapevoli che oltre a incontrarsi di persona o a telefonarsi sul vecchio numero fisso hanno usato anche i nuovi media per fare campagna.

4. Vedo la mentalità Cip nella diffusione dei Like su Facebook, spesso distribuiti con la stessa indifferenza alla foto delle vacanze dell’amica come a gruppi o campagne dai messaggi ambigui o non chiaramente compresi. L’idea che la velocità debba per forza farci rinunciare ai tempi lunghi della riflessione, della critica, dell’analisi e che il nostro parere debba ridursi a un cenno virtuale del pollice. So che molti diranno che il Like è una modalità di Facebook che non condiziona il resto dei nostri atteggiamenti. Eppure siamo sicuri che questo approccio a semplificare tutto con giudizi rapidi e superficiali non stia colonizzando anche gli altri aspetti della nostra capacità di valutazione?

Qualcuno potrebbe prendermi per un apocalittico. Chi segue L’Immateriale sa che non lo sono. Ho però sempre creduto che il mondo possa essere cambiato non da questa o quella tecnologia ma dalle persone che non rinunciano a pensare con la propria testa. Anche internet può ottundere i cervelli, ed essere un grande diffusore di conformismo. E i conformisti, si sa, si sentono sempre un passo avanti agli altri, proprio come certi profeti della mentalità Cip.