martedì 27 dicembre 2011

I media sociali non son cosa da ragazzini, presidente Formigoni




Quando si critica gli esperti bisogna sempre essere cauti. Soprattutto quando l’esperto in questione è stato insignito della laurea honoris causa in Scienze e tecnologie della comunicazione dalla facoltà di Scienze della comunicazione e dello spettacolo dell’Università IULM di Milano.
E dunque proprio di tecnologie della comunicazione si parla. Bisogna innanzittutto premettere che, vittima della sindrome del tempo che passa, il sessantaquattrenne quadripresidente della Regione Lombardia da tempo ha deciso di ringiovanire la sua immagine. Quindi ha preso a fare lo sbarazzino, di presentarsi al seggio elettorale con indosso una maglietta con Paperino sotto il giubbotto in pelle, di andare da Santoro con una camicia da figlio dei fiori che negli anni Settanta mai avrebbe indossato,  di farsi immortalare alla firma l’atto costitutivo della società che gestirà l’Expo 2015 con maglietta fucsia con drago stampato, giacca di velluttone blu psichedelico, orologio arancione in pendant con il fazzoletto al taschino da far orrore al più truzzo del truzzame che il sabato poeriggio dilaga in via Torino.  
Tramortiti i suoi critici con questo fantasmagorico look, il supergiovane Formigoni (non se ne voglia Elio per la citazione) ha dunque deciso di sfondare anche sui media sociali. E allora vai con facebook, twitter, flickR e YouTube, senza dimenticarsi delle suonerie registrate dal medesimo sotto la doccia. Per lanciare il suo “portale dinamico” è stato realizzato un video  in cui  il capolistino della Minetti  si esibisce in una serie di pantomime con le quali ci illumina sui media sociali. Il video mostra il Formiga-Fonzie che alza i pollici, il Formiga-dj che zompetta con l’agilità di un bradipo, il Formiga-lettore che legge un quotidiano fasullo. Questo capolavoro filmico vorrebbe essere rivolto a quegli smanettoni di giovanotti un po’ picchiatelli che frequentano i media sociali, e vorrebbe essere ammiccante, simpatico, irriverente, dinamico, appunto, anche se nel tentativo di tenere le “spalle alte” (come consiglia il regista nel backstage) Formigoni entra in scena ogni volta con la rigidità di uno che ha urgente bisogno di un bagno.
Ora, premesso che dubito non più della competenza ma della sua sanità mentale se qualche sedicente esperto di comunicazione presume che uno dovrebbe sorbirsi oltre 5 minuti di video senza capo né coda  per sapere che Formigoni comunica su twitter o su facebook, questa storia mi fa capire che la classe dirigente della più importante regione d’Italia e della capitale della comunicazione nel paese non capisce un tubo di comunicazione digitale. C’è tanto da ridere ma ancor più da riflettere. Rimando all’articolo di Bertram Niessen su DoppioZero per una serie di considerazioni sulla struttura narrativa e le reazioni a questo video.  Da parte mia evidenzio  come l’errore più grave che può commettere un politico o un’azienda è pensare che i media sociali siano cose da ragazzini e non i più efficaci strumenti di comunicazione e informazione a disposizione dello strato più evoluto e colto della società.
Strategia  vecchia: sminuire, distorcere, denigrare quel che non si riesce a capire ed è quello che (consciamente o no) ha fatto Formigoni; svelando la sua idea riduttiva e banalizzata dei media sociali si è autodenigrato. Vuole proporsi come ipergiovane, il Formiga, ma si è rivelato arcaico e reazionario.
Guardatevi anche il backstage del video, dove col sottofondo della voce di Barry White si sente la voce di un regista che mi ricorda quello, impersonato da Walter Chiari, chenel film Gli Onorevoli (1963) riesce a distruggere la credibilità del candidato missino durante una trasmissione televisiva.  Almeno nel film il regista, comunista e gay, lo faceva apposta.

mercoledì 30 novembre 2011

Esselunga: mito tossico e realtà


Il sopra o il sotto; davanti o dietro: vi sono tanti modi di guardare o di pensare un’impresa. Preferiamo quasi sempre la prima opzione, forse perché è appunto la prima che conosciamo, quella più facile, quella che guardiamo più spesso, quella più curata e per questo più gradevole.
La comunicazione d’impresa (in tutte le sue varianti: dalla pubblicità alle variegate declinazioni del below the line) si è sempre occupata del davanti e del sopra. Funziona ancora oggi?
Due mesi fa Esselunga ha lanciato una campagna ambiziosa quanto esosa: produrre un filmato promozionale firmato da Giuseppe Tornatore e stamparne 5 milioni di copie per regalarne una a ogni cliente. Il regista premio Oscar a corto di idee riprende l’idea del ragazzino che scopre l’incanto non più del cinema ma del supermercato. Tornatore mette in scena lo spettacolo della merce (per citare un testo di Vanni Codeluppi), intuendo che esso è una categoria estetica prima ancora che sociologica. Ovvero ritengo che una parte della popolazione dei paesi cosiddetti avanzati abbia conformato la propria estetica sulla base di quella che assorbe passivamente frequentando i grandi centri commerciali e gli ipermercati. Tornatore racconta un mito tossico, quello del supermercato come epitome ultima dell’opulenza occidentale e a produrre il thauma non è più la scoperta del mondo ma la molteplicità cangiante di beni che accende il desiderio.
Dal punto di vista tecnico quella di Esselunga è un’operazione che si avvale di investimenti in produzione e postproduzione digitale notevoli. Il mito tossico è raccontato (invevitabilmente) con la patina glossy del racconto fantastico e il risultato sono immagini estremamente levigate. Appunto, cosa possiamo desiderare di più di un davanti e di un sopra levigato, senza sbrecciature, armonioso? Quella che noi chiamiamo bellezza è spesso il frutto del potere.
Ma il dietro? il sotto? Possiamo oggi credere che sia possibile nasconderli, renderli anonimi, afoni, a causa dell’imbarazzo che ci crea la loro bruttezza, la loro imperfezione, la violenza che l’immagine pacificante cela? No. Oggi basta una telecamera digitale da pochi euro per mostrare a tutti la violenza di ogni rapporto di potere. E così emergono dal web i lavoratori in sciopero della logistica di Esselunga, che non sono gli attori della famiglia italiana modello del film di Tornatore ma immigrati brutti, sgraziati, rabbiosi, con un linguaggio povero come la loro realtà.
Provate a vedere i video degli scioperi dopo aver visto il minifilm di Tornatore. Non noterete solo la radicale differenza estetica che passa tra essi. Forse capirete anche come l’accettazione di certi rapporti di potere (e, ovviamente, di indirizzo dei consumi) passi anche attraverso un’adesione estetica.

domenica 13 novembre 2011

Social media marketing and pr

Slides di una recente docenza sui principali strumenti e i concetti di base del marketing e della comunicazione attraverso i media sociali.
Enjoy it! :)

lunedì 31 ottobre 2011

Social media relations

A seguito di varie richieste segnalo che su Slideshare si possono trovare le mie slides di una recente docenza su come cambia l'attività di media relations nell'epoca dei media sociali.

lunedì 24 ottobre 2011

La televisione dei social media



Metto in fila tre fatti.
Il 7 ottobre Stefano Bonilli annuncia il suo addio a Facebook, denunciando (non il primo) l’invasività del social media.
Il 15 gennaio 2009 la Burger King chiude la sua iniziativa Whopper Sacrifice, che regalava un Whopper a ogni utente Facebook che cancellava 10 suoi amici, a seguito di un successo imprevisto che aveva provocato quasi 234mila cancellazioni di “amici”.
Finora (le 23.20 di domenica 23 ottobre 2011) 1457 persone su Facebook hanno messo un Like alvideo che su Repubblica.it mostra le ultime torture a Gheddafi prima del colpo finale.
Facebook è un luogo virtuale dove creare e coltivare relazioni con le persone, si dice. Ma relazioni di che tipo? Si tratta di relazioni lasche, che quasi sempre possono essere cancellate senza rimpianti, di scambi fortuiti e distratti di qualche riga di chat, di profili che si sfiorano e si allontanano subito dopo, di Like distribuiti senza pensarci, un gesto virtuale ambiguo che può significare approvazione, attenzione, sostegno, ringraziamento, e tanto altro senza soffermarsi molto su cosa e sul come di quel contenuto.    
Potrebbe sembrare un problema legato a certe particolari modalità di fruizione ma quando un social media è fruito da oltre 500 milioni di persone nel mondo, la sua pervasività finisce per imporre o almeno per insediare le sue modalità di comunicazione e i processi mentali  suoi propri nelle abitudini di chi ne fruisce. O almeno tra i fruitori più sguarniti.
Chi ha contenuti almeno parzialmente originali coltiva il suo blog o il suo twitter ( o anche meta-social media come Storify). Chi invece non ha altro che il suo privato da esporre e sul quale tentare di attrarre l’attenzione altrui finirà per utilizzare Facebook. Dunque, Facebook sta sempre più diventando la televisione dei social media: il suo enorme seguito ha banalizzato contenuti e relazioni che vi si possono trovare. E se in televisione il film erotico o soft-core ha sempre la sua audience la pornografia del proprio privato che tanti esibiscono su facebook non è da meno.
L’ho già evidenziato altrove: come in televisione puoi fare ottimi programmi ma sempre consapevoli delle caratteristiche del mezzo e del pubblico, così anche Facebook può consentire lo sviluppo di percorsi di comunicazione meno banalizzati. Ma non è questo il punto.
Bisogna semmai riflettere se la stragrande maggioranza degli utenti dei social media si avvierà a considerare normali dei livelli di relazione ridotti a poche convenzioni e poche frasi distratte, se l’abbassamento costante della capacità di attenzione porterà tanti ad accontentarsi di coriandoli di contenuto e di significato, se il flusso di informazioni e notifiche non implicherà una generale anestesia emozionale. Così, di fronte a un dolore privato o a uno strazio collettivo le reazioni si ridurranno a qualche emoticon triste o a un incomprensibile Like.

giovedì 6 ottobre 2011

L'uomo che trasformò il computer in un media


Nel profluvio di celebrazioni, rimpianti e retoriche che hanno accompagnato la notizia della morte di Steve Jobs non ho trovato riflessioni interessanti sulle trasformazioni profonde che l'uomo di Cupertino ha promosso o in alcuni casi imposto. I quotidiani per lo più si limitano a registrare l'emozione di politici, imprenditori e singoli fruitori della rete oppure elencano i prodotti che ha lanciato la Apple nell'ultimo decennio.
Da parte mia ritengo che la grande innovazione, davvero radicale, trainata dalla visionarietà di Steve Jobs sia stata quella di trasformare il computer in un media.
Da oggetto destinato a un pubblico di esperti informatici prima e poi inteso come strumento di produttività personale, il computer grazie a Jobs è diventato un media altamente flessibile, capace di trasferire all'utente tutte le funzioni dei vecchi media e di crearne di nuove.
Questa traslazione ha creato il mondo come lo conosciamo oggi, in cui il valore è frutto della capacità dei singoli di utilizzare, trasformare e distribuire i contenuti attraverso dei computer-media che possono prendere le forme di un laptop come di un cellulare, di un iPad come di uno smartphone. Chi si ferma al mero prodotto o alla mera applicazione tecnologica non coglie il senso di una profonda trasformazione antropologica, che condiziona le vite di qualsiasi soggetto che oggi fruisce i media.
E così siamo diventati tutti dei produttori di contenuti, tutti siamo dei media. Chi ha pochi contenuti finisce per mettere a disposizione il proprio privato, dato che sei nulla se non sei inserito e visibile nella catena produttiva dei contenuti mediatici.
Non è detto che questa trasformazione abbia solo effetti benefici. Di certo è quella più profonda, ed ingenui sono coloro che credono di star facendo una semplice telefonata quando usano il loro smartphone. 
 

domenica 18 settembre 2011

La regola di pregnanza


Se noi blogger imparassimo a valutare criticamente i nostri contenuti forse potremmo contribuire minimamente a ridurre la spazzatura digitale che affolla il web.
Stasera ho scritto per un'ora. Ho riletto il post e l'ho fatto rileggere anche a chi mi è vicino: un testo loffio, senza idee, con uno stile debole. Perché pubblicarlo? Solo  perché sono 4 settimane che non pubblico niente?
Nella netiquette dei blogger dovrebbe esserci anche una regola di pregnanza: posti solo se almeno tu consideri il contenuto davvero valido, senza mettere le mani avanti dicendo che il post è leggero o che oggi è sabato o altre patetiche excusationes non petitae.
I lettori ci concedono attenzione solo se dimostriamo di avere idee. Se non le abbiamo l'unico favore che possiamo loro fare è non rubare la loro attenzione.


domenica 28 agosto 2011

Il valore delle pr

Ho scoperto solo di recente il paper del 2009 di Marco Gambaro e Riccardo Puglisi dal titolo "What do ads buy? - Daily coverage of listed companies on the Italian press" che presenta una attenta analisi della correlazione tra gli investimenti pubblicitari e visibilità sulla stampa delle aziende investitrici.
Il pierrino banale dirà: "E quale è la novità? sappiamo benissimo che la pubblicità ci apre le porte di tante redazioni e le orecchie di tanti giornalisti". Certo, ma il merito di Gambaro e Puglisi è di individuare in maniera scientifica una serie di variabili che legano investimenti pubblicitari, attività di ufficio stampa (invio di comunicati stampa) e conseguente copertura da parte dei media a stampa.
In particolare i due autori presentano il rapporto tra numero dei comunicati stampa e numero degli articoli nel periodo considerato (2006-2007), la frequenza relativa degli articoli dopo la distribuzione del comunicato stampa e in rapporto alla frequenza relativa nei giorni senza comunicati con, soprattutto, il cambiamento percentuale della frequenza relativa dopo un comunicato stampa.
Al pierrino banale vorrei dire che queste analisi non sono esercitazioni accademiche ma un ottimo viatico per argomentare e valorizzare l'incidenza del lavoro delle pr non attraverso considerazioni soggettive ma attraverso analisi quantitative e statistiche, grazie a strumenti non troppo complessi come regressioni e R2. Non so ad oggi quante agenzie di pr italiane sviluppino analisi statistiche per verificare l'incidenza del loro lavoro. Forse parecchie, forse solo alcune (e per questo chiedo ai miei quattro lettori di scrivere delle loro esperienze), ma la necessità di superare le valutazioni soggettive è sempre più stringente, soprattutto a fronte della raffinatezza raggiunta dagli strumenti analitici dei media digitali. Come ho scritto altre volte la rassegna stampa è solo una base di partenza per sviluppare analisi più evolute del lavoro di dialogo con i media: rimanere ancorati a una collazione di fotocopie è come continuare a comunicare via fax nell'epoca dei media sociali.
Se i pierrini non saranno capaci di spiegare oggettivamente l'incidenza delle loro attività essi non riusciranno mai a legittimare pienamente la loro professione, nonostante tutta la boria e il cinismo di cui potranno ammantarsi.

lunedì 15 agosto 2011

Twitter Vs. Facebook: una banalizzazione fuorviante


Twitter Vs. Facebook? Creare contrapposizioni è il modo più ovvio per parlare di certi argomenti senza capirli. Con il post Giap, Twitter e il Terrore i Wu Ming hanno aperto il dibattito sulle caratteristiche dei due social media, incanalato poi in una discussione su Twitter con l’ashtag #twitterisnotFB e nelle pagine dedicate al tema da Repubblica sabato scorso.

Ho scorso i tweet con l’ashtag della discussione e vi ho notato spesso una esaltazione acritica di Twitter e un’insofferenza altrettanto estesa nei confronti di Facebook. Mi sembra un tipico caso di mentalità Cip, di omologazione di giudizio dato che adesso è figo stare su Twitter e venire aggiornati da cinguettii da 140 caratteri. È Cip, secondo la definizione che propongo del concetto, litigare su quale tecnologia di comunicazione sia più “avanti” invece di ragionare sui vincoli e sulle potenzialità che al contempo ti impone e ti offre una tecnologia. I Wu Ming hanno scoperto le potenzialità politiche e mobilitanti di twitter e su storify si trova un’ottimo resoconto di quanto è successo durante le mobilitazioni #notav in Val di Susa (poi dirottate con l’ashtag #saldi). Ma Twitter è un luogo del narcisismo digitale almeno quanto facebook, usato da tante star per farsi seguire passivamente da stormi di fan adoranti e cinguettanti. E facebook è di rimando senza dubbio un coacervo di narcisismo e stronzatine perditempo ma anche un luogo dove decine di migliaia di persone ogni giorno forzano i vincoli del dispositivo e fanno diventare il media un veicolo di informazione, di mobilitazione, di riflessione.

Le qualità di un media non sono date solo dalle sue caratteristiche intrinseche, ma anche dalla qualità dei loro fruitori e dalla loro capacità di forzare il dispositivo per creare nuove modalità di fruizione. Per Wu Ming 1 twitter è “un gigantesco meta-feed di tutto quello di cui si discute in rete” (intervista a Francesco Spe): una definizione profonda ma che vale solo per quanti la capiscono e utilizzano il media in maniera creativa. All’opposto, ci saranno milioni di utenti facebook impegnati ora a postare le foto delle loro vacanze e qualche spiritosaggine sul wall ma non per questo facebook perde le potenzialità di informazione e di mobilitazione che gli hanno saputo dare (anche a dispetto dei gestori del sito) i tanti che hanno forzato i vincoli con cui era stato pensato quel dispositivo.

Ingabbiare il tutto nello schema “Twitter=informazione, Facebook=relazione) come ha semplificato Repubblica sabato scorso non aiuta a capire i due media, figuriamoci se aiuta a capire come gli utenti stanno cambiando dal di dentro, semplicemente usandoli, i due media.

Vi sono infiniti media, e infiniti twitter e facebook quanti il numero dei loro utenti. I media sono infiniti perchè non solo il numero dei fruitori è calcolato in miliardi ma perché il mix di media che ogni utente si crea moltiplica all’infinito le potenzialità di comunicazione.

Semplificare in una dicotomia questa incalcolabile complessià che continuamente si ricombina e si rigenera significa non aver capito cosa sono i media oggi.



domenica 7 agosto 2011

I limiti delle recensioni online


Con pochi giorni a disposizione e meno soldi ancora in tasca questa è l'estate dei low cost e dei siti web di consigli turistici.
Come in altri casi si parte dall'assunto che un giudizio spassionato, benché anonimo, valga più di una recensione scritta da qualche esperto sottoposto alle pressioni dell'industria di cui si occupa. Un principio applicato non solo al turismo ma anche all'elettronica, alle recensioni librarie e musicali, alla valutazione in generale di prodotti e di servizi. In una recente vacanza mi sono affidato ai consigli di TripAdvisor e della guida cartacea Lonely Planet. Una segnalazione gastronomica di TripAdvisor è stata alquanto deludente: un ristorante con un menù banalmente turistico, con prezzi più alti della media pur se indicato nella categoria "budget". Il ristorante di Lonely Planet ci ha invece ampiamente soddisfatto e siamo ritornati per 3 sere su 6.
Da un'esperienza soggettiva e dunque parziale ricavo qualche riflessione rispetto al diffondersi di una mentalità che ho definito Cip, che finisce spesso per guardare le valutazioni soggettive online come un riferimento per forza utile ed efficace.

Ci sarà pure un motivo se qualcuno è riconosciuto come esperto in un campo e tanti altri no. Se si prende per buono in maniera acritica il giudizio dei tanti non esperti finiamo per cadere nel vecchio ricatto pubblicitario del "millions can't be wrong". Internet è piena di giudizi a buon mercato, si può anche riuscire a risparmiare in consulenze e libri grazie ad essi ma è stupido pensare che possano sostituire le valutazioni degli esperti.
Indipendenza non significa competenza e libertà non significa capacità di giudizio. Una community che si sviluppa liberamente attorno a un interesse o una passione comune non garantisce valutazioni definitive poiché il livello delle attese dei suoi componenti è estremamente variegato. In una community di appassionati di gastronomia si può ritrovare chi non sa cucinare nemmeno 2 uova in padella e uno chef: mettere i loro giudizi sullo stesso piano è sbagliato come anche dimenticarsi che la stessa diversificazione di competenze esiste anche al di fuori della community per cui le scelte del cuoco possono essere troppo raffinate per alcuni mentre gli entusiasmi del neofita possono risultare fuorvianti per i gourmet esperti.
Internet ti offre tante strade in cui perderti ma anche alcune grazie alle quali diventare più competenti e informati. Un guardiano di una biblioteca non è colto perché lavora in prossimità dei libri mentre è colto chi sa dove cercare i libri giusti, sapendo che spesso anche questi possono portare fuori strada.

lunedì 25 luglio 2011

lunedì 18 luglio 2011

Una modesta proposta a sostegno delle intelligenze locali


In tempi di crisi dei bilanci statali e locali una politica mediocre infierisce con esplicito sadismo sulle attività culturali e di ricerca, le cui risorse vengono tagliate con la miopia di un ragioniere tardo che non ha mai capito cosa e chi c’è dietro i numeri che compila.

Le attività culturali, la ricerca di base, le iniziative che diffondono quel bene comune per eccellenza che è la conoscenza hanno bisogno di nuovi modelli non solo per raccogliere finanziamenti ma anche per sviluppare consapevolezza collettiva della loro importanza, proprio in un momento in cui una certa vulgata tende a considerare la cultura un orpello buono e utile solo in tempi di vacche grasse.

La proposta non è del tutta originale ma ritengo molto facile da realizzare ed economicamente sostenibile specialmente nelle piccole realtà locali o di quartiere. Essa punta a sostenere non le attività di ricerca complesse che richiedono grandi investimenti in capitale fisso (macchinari, laboratori, staff altamente professionalizzati) e nemmeno le attività culturali di eccellenza, quali le stagioni teatrali, liriche e sinfoniche oppure le grandi mostre. Semmai la mia proposta punta a incentivare le risorse intellettuali locali, che spesso sono destinate all’emigrazione o a un limbo pervaso dalla frustrazione di non venire valorizzati.

Uno studioso giovane e senza grandi referenze che intende sviluppare una ricerca su un tema antropologico o storico o economico di ambito locale si trova spesso nell’impossibilità di ottenere risorse, condizione che condivide con tanti altri colleghi ricercatori in campo musicale, teatrale, letterario, ambientale e così via. Il ricercatore bussa a tante porte: quella porta è destinata ai grandi accademici, quell’altra tratta solo di cultura letteraria del Quattrocento, quell’altra è gestita dalla famiglia del cattedratico, quell’altra è riservata agli amici di.

Il problema potrebbe essere scavalcato nel modo seguente. Se una ricerca costa tra spese vive e onorari dello studioso 3.000 euro, il Comune invece di dire che non ha soldi può contribuire con un minimo, per esempio 500 euro, e farsi promotore e garante di una sottoscrizione di associazioni, altri enti locali e privati che sono interessati a sostenere quella ricerca. In cambio tutti i sottoscrittori fruiranno gratuitamente del risultato della ricerca, sia esso un saggio, un libro, uno spettacolo teatrale, una mostra fotografica o delle tracce audio, risultato che comunque dovrà essere messo a disposizione di tutti con licenza Creative Commons.

Naturalmente anche associazioni e privati cittadini possono farsi promotori di queste sottoscrizioni. Chi promuove la sottoscrizione sarà anche il garante della realizzazione o meno del progetto di ricerca, anche nei confronti di chi ci metterà solo 5 euro, che dovrà venire rimborsato in caso di fallimento della racolta fondi.

Quali sarebbero i vantaggi di questo modello? Innanzitutto i comuni potrebbero far fronte alle scarse risorse a loro disposizione, distribuendo le risorse su molti progetti di ricerca micro ma fortemente legati a certi territori e a certi contesti sociali e convogliando su di essi le risorse di altri soggetti della comunità. La comunità stessa vedrebbe accresciuto il suo capitale intellettuale, grazie alle ricerche e grazie al libero accesso ai risultati delle ricerche stesse. I giovani ricercatori, speso di nicchia, avrebbero l’opportunità di “pubblicare” in senso lato, ovvero rendere pubblico il frutto di ricerche altrimenti per loro inaffrontabili.

Si innesterebbe, come risultato non secondario, un circuito di sostanziale gratuità nella produzione e distribuzione del sapere.

Questa modesta proposta non punta a risolvere l’incuria di Pompei o i tagli ai teatri lirici quanto semmai a promuovere il rafforzamento del capitale intellettuale locale. In tempi di crisi economica esso è il miglior investimento che le comunità locali italiane possono fare.