martedì 1 ottobre 2013

Il "dagli all'untore", in salsa digitale





C’è un espressione napoletana alquanto icastica e brutale: “fa' 'o gallo ‘ncoppa ‘a munnezza”. In questo i consulenti e i presunti esperti (come chi scrive, ça va sans dire) riescono sempre benissimo, sempre bravissimi a maramaldeggiare, in maniera ipocritamente cortese e con proposte di una banalità sconfortante (“ripartite dalla vostra storia”), sugli errori dei loro colleghi. Ma non intendo parlare di deontologia, non temete.
Semmai mi domando perché ancora tutti parlano di internet ma pochi stanno cercando di capire quali sono le dinamiche di comunicazione e come noi stessi ci trasformiamo quando usiamo i media sociali.
Troppi hanno accomunato Barilla e Enel solo perché oggetto, pressoché in contemporanea, di iniziative di protesta sui media sociali, mentre si tratta di situazioni distantissime. L’azienda elettrica pianifica con la Saatchi&Saatchi una campagna alquanto minacciosa sin dal nome #guerrieri, provando a manipolare la mediasfera italiana attraverso la piattaforma di analisi dei consumi ZZUB. L’imprenditore a capo della multinazionale alimentare esprime con improntitudine la sua idea, alquanto retriva ma legittima, sulla famiglia. Nel caso di Enel il management ha dimostrato di non aver contezza di come viene percepita dai suoi utenti (almeno da quelli più attivi online e nella società) l’azienda di cui guida la comunicazione: semplicemente Enel non sa dove se stessa si trovi nella rete.  Nel caso di Barilla internet è stato usato per promuovere una protesta a seguito di un classico, seppur grave, incidente di comunicazione con un media tradizionale dell’amministratore delegato (e un certo giornalismo vive da sempre di interviste rubate e manipolate).
Da una parte abbiamo una creativa protesta nazionale che disintegra le ambizioni sbagliate di una campagna di comunicazione, dall’altra una gregaria protesta internazionale che attacca il prodotto stesso nel suo diritto a stare sul mercato. Fin qui, in estrema sintesi, le differenze di base dei due casi. Ma credo che qualcosa li accomuni.
Internet non è solo il luogo della conoscenza e della conversazione ma anche il luogo della protesta e del conformismo, e protesta e conformismo a volte possono essere sinonimi. E invece ancora siamo tutti condizionati da una retorica che ha presentato internet come un luogo di libertà e di liberazione, senza evidenziare che anche in un ambiente alquanto vario e abilitante come internet noi rimaniamo sempre condizionati dalla tecnica/tecnologia di comunicazione. E se andiamo a studiare in profondità vediamo che se internet non è di certo passivo come i media di massa, per lo più e per gran parte dei suoi utenti rappresenta un contesto in cui la superficialità e le reazioni epidermiche prevalgono di gran lunga sul discorso articolato e consequenziale. In questo senso è più facile diffondere un NO netto che un sì argomentato. Pensate solamente ai limiti delle chat, alla semplificazione imposta dai tweet, alla prevalente autoreferenzialità di tanti wall su facebook.
Dovremmo chiederci chi siamo noi quando siamo su internet e come cambiano le nostre reazioni a stimoli che vissuti dal vivo o sui mass media ci farebbero reagire in maniera radicalmente diversa. Al contrario troppi direttori della comunicazione si approcciano al pubblico di internet come se avessero davanti quello passivo della pubblicità o il dibattito colto delle lettere al direttore nei periodici di qualità. Dimenticano che internet è un ambiente totale dove ogni messaggio può essere manipolato e ricontestualizzato dagli utenti creativi (e spesso i migliori esempi di viralità sono proprio i mush-up), mentre tantissimi altri utenti sono pronti a sostenere la protesta o la buona causa della giornata per puro spirito gregario e conformista.
Personalmente credo che tanti che hanno diffuso #boycottBarilla abbiano fatto almeno una volta nella vita commenti omofobi peggiori di quelli di Guido Barilla. E tuttavia internet, tra petizioni, ashtag e vecchie catene di sant’antonio digitali (il “fate girare” appare quasi ogni settimana sulla mia home di facebook), offre infinite occasioni agli adoratori del politically correct di solleticare la propria buona coscienza. Speculare all’esaltazione acritica di internet è proprio questo politically correct che Robert Hughes chiamava “La cultura del piagnisteo”. Così chi è consapevole di tutto questo finisce per gestire le pr digitali con una buona dose di ruffianeria verso tutte le principali tematiche del conformismo digitale. Tuttavia in questo modo si rinunzia a gran parte della potenza di innovazione, e anche di provocatorietà, che risiede nella comunicazione sul web.
Facile prevedere che ora per paura che si scateni un “dagli all’untore” digitale, molte imprese punteranno a una comunicazione web la più anodina possibile. E l’unica navigazione che ci offre il gran mare di internet? La comunicazione digitale funziona solo come sapiente uso dei media sociali per veicolare ipocrisia e buoni sentimenti? Se il web è libero perché non dovrebbe ospitare opinioni lontane dalla vulgata buonista purché non discriminatorie? Siamo sicuri allora che il web sia più tollerante della carta stampata, dove si possono ancora trovare opinioni divergenti senza il rischio di vedersi boicottare o aggrediti da teppisti/conformisti/buonisti digitali?
Cosa e chi ci permette di essere internet? Un essere creativo e primitivo al tempo stesso, leader e gregario, nobile e bieco,  razionale e fanatico, propositivo o apatico, curioso o indifferente, il tutto all’interno della stessa persona, nell’arco della stessa giornata. In realtà, ancora poco sappiamo di questo essere.
Dopotutto per decenni la comunicazione aziendale ha cercato di parlare a qualcuno che non conosceva. Con internet questi sconosciuti reagiscono. Possiamo relazionarci a loro con il silenzio, il vuoto conformismo, con la fuga o l’autoinganno. Oppure cercando di capire come pensano e reagiscono su internet questi sconosciuti che noi stessi siamo.