giovedì 30 dicembre 2010

Biocapitalismo all'italiana: l'esubero del capitale cognitivo

Si può stabilire un legame tra le inquietudini dei giovani italiani e la proposta di futuro che Marchionne ha offerto agli operai della Fiat nel nostro paese?

L'aspetto più tragico delle proteste di ricercatori e studenti di queste settimane non risiede nella violenza degli scontri o nella drammaticità di una condizione precaria che è diventata un dato strutturale di tante esistenze bensì nell'assenza di una proposta compiutamente biopolitica (nel senso che Foucauld già aveva sviluppato nelle lezioni al College de France nel 1979-80) ai fenomeni che si denunciano.

Vi è, questo sì, la consapevolezza sempre più diffusa che né la colonizzazione del tempo di vita da parte delle attività lavorative né la messa a valore delle proprie risorse cognitive, emotive e relazionali possono garantire, oggi e per il futuro, un ritorno economico capace di soddisfare i bisogni minimi di riproduzione del capitale cognitivo dei soggetti. E molto spesso nemmeno la mera autonomia materiale è possibile con i lavori cognitivi che il mercato italiano offre.

Il bios e la psychè, considerati fattori produttivi a tutti gli effetti, messi sul mercato italiano non riescono poi a generare uno scambio monetario soddisfacente per la parte che li cede.

Si assiste pertanto a una contraddizione in cui sembra inabbissarsi l'intero sviluppo economico del paese: da una parte si cerca di pagare il meno possibile un lavoro ridotto a mero oggetto di comando, quasi uno zoon di cui si compra la forza animale non consapevole, dall'altro tantissime soggettività cognitive che vorrebbero lavorare ad output immateriali attraverso la messa a valore del loro bios e della loro psyche si ritrovano in un contesto economico che non richiede a sufficienza, né in quantità né per qualità, il loro contributo e quindi finisce per pagarlo poco.

La politica si accorge del precariato come se fosse un fenomeno da aggiustare con qualche legge o un po' di crescita del Pil non cogliendo che si tratta invece della conseguenza della crisi del modello sociale e industriale italiano.

Sbaglia dunque chi pensa che il modello di Marchionne sia solo un nuovo modello di relazioni industriali: esso intende a fortiori delineare un modello di sopravvivenza per una intera nazione nell'epoca della globalizzazione. Che i costi di questa sopravvivenza debbano essere ripartiti nella società secondo logiche di mera redditività aziendale a Marchionne è chiarissimo. Non invece alla politica italiana, che si schiera a favore o contro sulla base di schemi ideologici superati. La destra vive tutto come una grande revanche contro il sindacalismo italiano di sinistra, un atto simbolico, come il successo della Thatcher sui minatori, capace di disarticolare l'avversario nelle sue basi sociali. La sinistra, anche quando vede lucidamente legami tra comando politico e comando dell'impresa come Giorgio Cremaschi (nel recente Il regime dei padroni, da Berlusconi a Marchionne), inciampa in meccanismi mentali e terminologie retrodatate: usare il termine padrone rievoca un'epoca in cui due chiare soggettività confliggevano in un contesto nazionale.

Oggi invece anche ogni Marchionne di turno deve fare i conti con una logica aziendale transnazionale che si può accettare o no ma cambiare poco o punto. Ed è qui che la politica vive la sua crisi, nella sua incapacità di elaborare risposte transnazionali a modelli biocapitalistici che attraversano nazioni e continenti. Non si tratta dunque di importare in Italia dagli USA un welfare compassionevole di stampo calvinista al posto dello stato sociale frutto del compromesso fordista-keynesiano, come scrive oggi Massimo Giannini su Repubblica, poiché nella logica della filiera del valore mondiale un paese in declino come l'Italia deve adattarsi ad avere meno in termini di diritti. Punto.

E nemmeno si tratta di una classica contrapposizione tra produzioni labour intensive o (cognitive) capital intensive, poiché nell'economia della conoscenza non vi può essere un'attività labour intensive che non preveda anche un forte investimento nel capitale cognitivo dei soggetti che la realizzano. Si parte invece dall'assunto che i due modelli, quello dell'individualismo anglosassone e quello dell'economia della conoscenza almeno propagandato dall'Unione Europea, non possano essere più applicati all'Italia e pertanto bisogna gestire un downsizing dei diritti di cittadinanza economica e sociale, conseguenza della marginalità del nostro paese.

Marchionne ha capito questo e si comporta in maniera coerente. Anche le fasce più consapevoli del sindacato lo hanno capito. Si oppongono come possono ma rinviare al passato è un modo per esonerarsi dalle sfide del presente.

Parlare di economia della conoscenza in un tale contesto nazionale finisce per avere ben poco senso, almeno fino a quando non verrà sviluppata una biopolitica capace di offrire nuovi spazi e nuove risposte a menti e corpi sotto scacco.

giovedì 23 dicembre 2010

Flattr non convince

Flattr è un nuovo servizio di micropagamenti sociali che prova a compensare i contenuti pubblicati online. Ci si impegna a versare a Flattr una quota mensile (anche solo 2 euro) e poi cliccandone il loghino che appare sotto i post o altri contenuti digitali si distribuiscono i soldi, premiando i contenuti più interessanti. La società svedese trattiene poi il 10% a titolo di contributo spese.
Questo sistema potrebbe funzionare se un numero davvero considerevole degli utenti web (diciamo almeno 3 milioni, lo 0,01% di una utenza mondiale pari oggi a 3 miliardi di esseri umani) abbracciasse l'idea e se un numero altrettanto considerevole di produttori di contenuti digitali originali si associasse al progetto. Possibile che 3 milioni di persone nel mondo accettino di pagare un minimo di 2 euro al mese? Se pur capitasse questo caso (troppo ottimista per essere reale), avremo 6 milioni di euro da distribuire su decine di milioni di contenuti. Gli incassi mensili dei siti si conterebbero in centesimi o millesimi di euro.
Poi non si capisce perché le persone dovrebbero iniziare a lasciare distribuire questo obolo digitale quando fino ad oggi non lo facevano. Certo, si dirà, in questo modo si ricompensano monetariamente (ma in maniera simbolica) i creatori di contenuti digitali, Ma quello che i fondatori di Flatter non colgono è che l'economia digitale è una economia che si basa essenzialmente sul dono e sul gratuito. Non è che i blogger o gli artisti di graphic design o i musicisti o gli sviluppatori di SolidWorks siano presi da un afflato francescano di donazione di sé al prossimo. Semplicemente sul web si cerca un pubblico capace di far crescere e sostenere la visibilità e la reputazione di quel creatore di contenuti fino a fargli superare quella soglia invisibile che passa tra il dilettante e il professionista. Il modello di compensazione che cercano i creatori di contenuti digitali non si basa sulla richiesta di denaro ai fruitori. Qualsiasi blogger tra ritrovarsi 100 euro in più al mese in tasca e avere 1000 lettori in più preferisce senza dubbio la seconda.
Così come gli artisti oramai vendono quantità ridicole di cd e guadagnano invece grazie ai concerti e il licensing, così i creatori di contenuti digitali regalano i contenuti per poi essere ingaggiati come sviluppatori software, come conferenzieri, come formatori, come turnisti o musicisti di appoggio, come sviluppatori di ambienti artistici digitali e così via.
Ecco perché a mio avviso i micropagamenti non funzioneranno mai, anche la creazione di un borsellino elettronico come Flatter: l'ideologia del gratuito si è radicata profondamente tra i giovani, ed essi vogliono essere semmai fans di un sito e non elemosinieri. L'utenza dei social media ama condividere un link e far scoprire contenuti interessanti, originali, brillanti, divertenti, ma non chiederebbe all'amica alla quale ha forwardato quel contenuto di lasciare anche un obolo per il blogger o il film maker.
Se dovessi usare una metafora direi che l'economia dei contenuti digitali è estremamente distante dal commerciante borghese che prova a vendere la sua merce al miglior prezzo possibile, mentre è invece simile al contadino che semina su vari terreni i suoi semi sperando che almeno in uno germoglino rigogliosi. Al di là della metafora si tratta di un cambio di paradigma nel rapporto tra i produttori e fruitori di contenuti che stenta a essere capito da tanti che ragionano con i vecchi schemi mentali.
Siamo in un territorio incognito dell'economia, dove nessuno ha ancora elaborato formule certe per trarre valore dai contenuti pubblicati online.

martedì 14 dicembre 2010

Real Time Marketing & PR

Che cosa significa pianificare nell'epoca delle comunicazioni istantanee? Tutti i libri di pianificazione aziendale oggi disponibili, riguardino essi il marketing, la comunicazione o i processi produttivi, sono stati tutti scritti in un'epoca quando i media sociali e i modelli di comunicazione digitale erano agli albori (e solo nei casi dei testi più recenti).

David Meerman Scott nel suo ultimo libro “Real-Time Marketing & PR” si pone proprio questo interrogativo: come le aziende stanno affrontando la comunicazione istantanea e le sue innumerevoli forme? Come cambiano il marketing e le PR quando vogliono puntare a rilevare instantaneamente e rispondere istantaneamente alle sollecitazioni che arrivano dal mondo connesso?

Real-time rigurda le notizie che irrompono nel giro di minuti, non di giorni. Significa che le idee si infiltrano e si diffondono viralmente in maniera imprevedibile in un pubblico globale. Accade quando le imprese sviluppoano (o rivedono) i loro prodotti e servizi instantaneamente, sulla base dei riscontri dei clienti o degli eventi che accadono nel mercato. E accade quando un'azienda vede un'opportunità e agisce per prima per coglierla”, scrive Scott. Al di là di una certa enfasi tipica del personaggio, la questione è centrale. Qualche mese fa a un master per professionisti chiedevo (non era ancora uscito il libro) quali strumenti gli uffici stampa dove lavoravano usassero per seguire il buzz sulla rete. Nel silenzio generale solo alcuni risposero che la loro azienda riceveva da Digital PR di Hill& Knowlton un report mensile sulle notizie e commenti apparsi in rete. Dico: mensile! Flussi di tweets accadono nell'arco di minuti, in qualche ora una pagina di Facebook riceve migliaia di likes o di adesioni, ma una società di comunicazione vende alle imprese clienti (esosamente, immagino) un report sul buzz di internet a cadenza mensile. Sarebbe come abbonarsi adesso a un quotidiano per ricevere ogni giorno le copie del 2009.

Sulla falsariga del suo best seller “The New Rules of Marketing and PR”, David Meerman Scott sottolinea che se le idee e la conoscenza dei prodotti e servizi non devono più passare esclusivamente per i media per essere conosciuti allora non sarà la dimensione dell'impresa e il suo budget pubblicitario a vincere quanto invece la rapidità e l'agilità dell'impresa nel comunicare ma anche (aggiungo io) la creatività nel produrre contenuti capaci di inserirsi nei flussi della comunicazione digitale.

Troppe imprese operano sulla base delle esperienze passate o in funzione del futuro pianificato; poche operano nel presente e reagiscono immediatamente agli stimoli del presente, dice Scott il quale ha fatto un piccolo esperimento: alle prime 500 imprese della lista di Fortune's ha inviato la seguente domanda:

Negli ultimi uno o due anni le vostre strutture o i vostri processi di marketing e comunicazione sono state cambiati in funzione dell'era digitale del real-time?” Certo, la domanda era un po' criptica e forse autopromozionale, ma le aziende che si erano poste il problema non avevano difficoltà a comprenderla. Delle prime 100 aziende americane solo 28 hanno risposto ma alcune entro 3 ore e quasi tutte entro le 24 ore. Scott dimostra che c'è (sarebbe meglio dire: ci potrebbe essere) una relazione stretta tra i risultati positivi delle imprese real-time e il loro innovativo approccio al marketing. Si tratta di un'argomentazione debole, che potrebbe facilmente essere smentita ma che lascia invece integro il ragionamento di base: chi ha capito la necessità di velocizzare i processi di risposta alle sollecitazioni esterne fino a renderli instantanei ha riorganizzato in maniera concreta processi e organizzazione aziendali.

David Meerman Scott offre una serie di proposte per fare marketing e pr davvero in tempo reale, spesso frutto dell'analisi delle imprese che si sono inoltrate verso questo modello. È difficile dire quali tra queste proposte potrebbero essere traslate nel contesto italiano, in una fase in cui tante imprese sono intimorite dalla velocità del cambiamento e più che usare il digitale per inseguirlo provano a difendersene, con effetti talvolta meno inefficaci che ridicoli.

domenica 5 dicembre 2010

Wikileaks e la crisi del potere nell'epoca digitale


Quali sarebbero le clamorose rivelazioni di Wikileaks? Come ha detto Vauro in una vignetta: “Wikileaks ha scoperto che Berlusconi è un puttaniere inaffidabile” “Quando scopre anche l'acqua calda butta la pasta”. In questo senso i files di Wikileaks non fanno altro che confermare quanto si sapeva già, dall'appoggio saudita e pakistano all'integralismo islamico agli affari tra Berlusconi e Putin, dalla corruzione del governo Karzai ai giudizi crudi sui leader europei. L'unica notizia clamorosa riguarda la richiesta della Clinton di chiedere ai diplomatici USA presso la sede ONU di New York di operare come spie per futuri ricatti ai loro pari grado. Ma si tratta di una infamia annegata tra migliaia di risapute infamie e vergogne e doppiogiochi internazionali che sanno di già visto.

Alla fin fine Wikileaks ha reso disponibili a tutti gli utenti di internet informazioni digitali che erano già disponibili ai 3 milioni di americani che hanno l'accesso alla rete Siprnet del ministero della Difesa. Dunque un grande bluff? No, perché la novità radicale non è nel contenuto delle notizie, bensì nella messa in crisi dell'asimmetria informativa che da sempre ha caratterizzato il rapporto tra Stato e cittadini.

Il potere degli Stati si è sempre basato sul capacità di dominare gli altri poteri attraverso il monopolio della forza e l'accesso a informazioni riservate. Il leviatano e gli arcana imperii non possono essere disgiunti: il potere domina chi gli è sottoposto non solo con l'imposizione della forza ma anche per sottrazione di conoscenza. Hobbes e Tacito hanno individuato le due linee entro le quali il potere statuale si è sviluppato negli ultimi 20 secoli: tutta la scienza della politica dopo di loro si è per lo più rivolta alla costruzione di un apparato formale capace in prima battuta di giustificare e poi, più di recente, di rendere scrutinabile il fondo oscuro del potere.

Wikileaks dimostra nel modo più clamoroso la fragilità attuale degli Stati nel controllare e gestire i contenuti digitali. È scoppiata dunque la bomba informatica che presagiva già undici anni fa nel libro omonimo Paul Virilio, il quale prevedeva che avrebbe desertificato mente e vita degli umani. E invece la bomba scoppiata in faccia ai governanti USA, come bombaroli maldestri.

Ma se scompaiono gli arcana imperii si può continuare a governare il mondo come prima? Si può usare la rete con lo stesso approccio con cui 50 anni fa si usavano le casseforti? (e infatti si parla di codici, di chiavi, e così via) Che senso ha una forza coercitiva paralizzata da troppe informazioni o da informazioni disponibili a tutti? E se l'opposto dell'asimmetria informativa classica fosse una entropia della conoscenza che ci porta verso l'insignificanza?

La caccia all'uomo che si è scatenata contro Julian Assange è indice della debolezza isterica di un potere che si ritrova svelato nella sua inadeguatezza a controllare la rivoluzione digitale. Ma non è detto che i singoli cittadini siano capaci di farlo. Anzi. Siamo tutti in balia della tecnologia, che sembra offrici più potere e conoscenza. Ma rispetto a chi e per che cosa?

Oppure ad avere più potere e conoscenza sarà solo la tecnologia?


(nell'immagine la distribuzione per paesi trattati dei documenti in possesso di Wikileaks)