giovedì 31 marzo 2011

Opinione pubblica e media sociali


Come si determina l’opinione pubblica nell’epoca dei media sociali?

Sappiamo dai fondamentali studi di Habermas l’importanza che hanno avuto i quotidiani nella creazione e nella definizione degli ambiti della “sfera pubblica” e come il filosofo epigono della scuola di Francoforte critichi le distorsioni prodotte da mass media, public relations e consumismo.

L’opinione meditata, scritta, argomentata con una sua logica che può essere smentita o smontata sulla base di principi condivisi da chi partecipa alla discussione è un modello ideale, che in realtà non è mai esistito. Anzi, spesso i quotidiani sono serviti per infiammare gli animi e inculcarvi principi irrazionali, violenti e contrari ai diritti basilari delle persone. Non è un caso d’altronde che un giornalista ha tenuto in pugno per un ventennio l’Italia e che gli strumenti di propaganda attraverso un uso efficace dei mass media siano stati messi in atto da Goebbels. Già all’epoca però si stava passando da un’adesione frutto di ragionamento a un’adesione come scelta alogica dettata da immagini, miti, riti, simbologie. Il meccanismo mentale che c’è dietro le immagini di Hitler e quelle Obama e Berlusconi non è molto differente: l’immagine carismatica del leader determina di per sè l’adesione a quel che dirà. La scelta politica è dunque più simile al ribollente tifo calcistico che a un gelido discorso cartesiano.

I social media hanno introdotto meccanismi in parte nuovi: poca argomentazione, molte immagini, testi scarni, scarso coinvolgimento. Le campagne di opinione che si sviluppano su internet sono spesso sostenute da argomentazioni chiare ma brevi e dunque poco approfondite. La veicolazione di video e foto riveste un’importanza fondamentale. I testi sono brevi come impongono i mezzi (pensiamo a Twitter). Il coinvolgimento è spesso virtuale, come nelle campagne di Avaaz. Eppure anche questa è opinione pubblica e sempre più i giovani (e non) commentano quella campagna su facebook piuttosto che ragionare sull’editoriale del New York Times.

Le campagne d’opinione su internet hanno bisogno di mobilitare l’emotività delle persone nei pochi secondi di attenzione su cui possono contare. Un video o una foto sono spesso la base. Poi seguono testi, appelli, richieste di share. In alcuni casi queste campagne diventano azione concreta ma il più delle volte si rimane a una forma di sostegno virtuale o, meglio, digitale.

In ogni caso siamo di fronte a una nuova modalità di elaborazione del discorso pubblico con cui non in futuro ma già oggi bisogna confrontarsi, per capirla e anche per evitare di far sommergere il proprio senso critico da iniziative rapsodiche, spinte emotive, interpretazioni non verificate.

Dopo l’opinione pubblica raziocinante di Habermas e le simbologie acritiche dei mass media potremmo trovarci circondati da distorsioni diffuse da qualche click dato distrattamente.

martedì 15 marzo 2011

Il lavoratore a strati


Il lavoratore a strati è un lavoratore che al di sopra del nucleo di competenze professionali specifiche deve costruire tutta una serie di strati di competenze aggiuntive per potersi proporre sul mercato, per poter dialogare con i suoi partner e gli altri professionisti da cui compra vari servizi o prodotti, per poter risparmiare denaro in un contesto dove cala costantemente il valore riconosciuto al suo lavoro.

Nella nostra epoca il superesperto che può permettersi di specializzarsi in maniera sempre più verticale su pochi ambiti professionali diventa sempre più un raro privilegiato. L’impoverimento della domanda e spesso anche il calo della redditività dei singoli incarichi spingono professionisti e società di consulenza a diventare in qualche modo tuttologi o almeno capaci di acquisire competenze spendibili sul mercato o almeno utili a contenere i costi operativi.

Le mansioni che nella vecchia impresa fordista venivano suddivise tra decine o centinaia di persone oggi vengono sussunte tutte dal singolo professionista/consulente che deve essere al contempo esperto di marketing personale, capace di negoziare le migliori condizioni di finanziamento con le banche, pronto a parlare di contabilità con il commercialista, rapido nel fare da agenzia viaggi di se stesso sfruttando le offerte su internet, abile nel valutare l’affidabilità e la professionalità di nuovi partner/fornitori, provetto nel conoscere i segreti di applicativi e sistemi operativi e via dilatando competenze e tempi di lavoro.

Uno dei paradossi sta proprio in questo: che all’incremento di ore lavorate e di competenze acquisite spesso non corrisponde un incremento di reddito. Non si tratta poi di un fenomeno marginale. Se si parte dal fatto che i dati recenti registrano la presenza in Italia di oltre 5 milioni di partite Iva attribuite a microprofessionisti e imprenditori e che altri calcoli determinano che la precarietà lavorativa (non solo partite Iva dunque, ma anche tutte le forme di lavoro a tempo e atipico) colpisce circa 3 milioni e 750 mila lavoratori, possiamo ipotizzare che alcuni milioni di lavoratori italiani vivono la condizione di “lavoratore a strati”.

Qualcuno potrebbe vedere in questa condizione lavorativa una sorta di job enrichment o enlargement. Io no. Stiamo entrando (per fortuna) in un’epoca di disillusione rispetto alle parole d’ordine di qualche anno fa quali flessibilità, multitasking, capitalismo personale. Dunque sempre più persone comprendono che questa condizione “a strati”, lungi dall’essere un elemento di modernità, è solo una soluzione inevitabile per sopravvivere alla crisi.