martedì 29 settembre 2009

Una generazione (de)qualificata?


Centinaia di “nuove professionalità” hanno fatto il loro ingresso nel mondo del lavoro negli ultimi due decenni. Ma quante di esse si sono sedimentate nel tessuto sociale come nuove professioni, con un loro statuto, principi, percorsi formativi? E quante presunte professionalità non sono state invece nient'altro che la conseguenza di una serie di processi di scomposizione, riaggregazione ed esternalizzazione di mansioni tradizionalmente seguite internamente all'azienda da soggetti che venivano genericamente definiti “impiegati”?
Queste “nuove professionalità” sono state per lo più proposte alla fascia di età che oggi è compresa tra i 40 e i 25 anni. Lo stipendio mediamente basso (la generazione “mille euro”) è già un indizio di mansioni oggettivamente di bassa qualità oppure altamente fungibili.
Il mondo del marketing e della comunicazione non sfugge a questa tendenza, anzi. A fronte di società medio-grandi, capaci di offrire dei percorsi di crescita professionale, vi è una miriade di realtà piccole o micro in cui spesso la compressione dei costi porta ad utilizzare il personale per mansioni ripetitive, esternalizzate dai clienti proprio perché povere di valore aggiunto. Entrare in queste realtà a volte significa vivere un percorso frustrante, una paralisi professionale, l'abbassamento delle prospettive di vita. Ogni giorno si rischia di perdere qualcosa e di sentirsi sempre più dequalificati.
Se associamo questo fenomeno di “outsourcing povero” al fatto che gli investimenti in formazione nel settore del marketing e della comunicazione in Italia sono cronicamente scarsi, viene fuori il quadro di una fascia di lavoratori e lavoratrici oggettivamente dequalificata, a forte rischio di essere espulsa dal settore non appena superata la soglia dei quarant'anni o nel momento in cui avanzerà delle richieste legate al suo ambito privato (mobilità, flessibilità di orari, parentalità, ecc.). Tanto vi è un piccolo esercito intellettuale di riserva, più giovane, più motivato, più manipolabile, più ricattabile, pronto a prendere il loro posto.
Uno scenario tanto realistico quanto inquietante, in cui si trovano avviluppate tante persone che non possono neanche contare se nessuna forma di ammortizzatore sociale.
Ma quali sono le esperienze dei miei quattro lettori a tal proposito?

4 commenti:

Serena ha detto...

Forse è vero, fra 20 anni mi guarderò indietro e invidierò questi miei giorni. Resta il fatto che la nostra generazione e il nostro settore al momento non possono guardare con troppo ottimismo al futuro. Siamo stanchi di costruire, ricominciare, costruire di nuovo e ripartire un'altra volta. Per me almeno è così. Se l'intensità degli sforzi fosse proporzionale ai risultati a quest'ora molti di noi chissà che vita farebbero. E altri, magari, sarebbero a casa a contare le mosche, come è giusto che sia.

In questo momento le pmi si trovano a scegliere ogni giorno se pagare i propri dipendenti per lo sviluppo del proprio prodotto/servizio oppure se investire quei soldi in formazione nella comunicazione. Voi che fareste se foste al loro posto? Nel bel mezzo di questa crisi che tutti conosciamo dubito si possa compiere questa scelta a cuor leggero.

Tuttavia spendere in formazione nella comunicazione è chiaramente un ottimo investimento sul futuro. E, forse, l'unico modo per riuscire ad attrarre capitali stranieri sul territorio. Ma per fare questo è essenziale una serie di misure statali a sostegno alle pmi. Altrimenti dove possono trovare i fondi per pagare il lavoro dei comunicatori? Alcuni consigli?

Dimmi la tua, Biagio.

Biagio Carrano ha detto...

Grazie per la tua riflessione. Forse qualche spunto per una risposta lo puoi trovare in questo mio vecchio post: http://biagiocarrano.blogspot.com/2007/11/verso-i-distretti-dellimmateriale.html

Unknown ha detto...

Salve!

¿Potrebbe interessare:


"... Immaginiamo di sederci davanti al nostro desktop, notebook, netbook, un qualsiasi monitor insomma, e di recarci presso il sito telematico Public Work 2.0, nascendo sistema d'interfaccia con l'insieme delle Pubbliche Attività. Immaginiamo di aprirvi un ormai classico account e di riportarvi dentro le nostre generalità e poi via via le nostre skill acquisite od in via, o perfino in desiderio, di acquisizione. E poi ancora le nostre esperienze, attitudini, preferenze, anche delle località, od entro quale raggio, preferiremmo rimanere, e così pure quelle caratteristiche psicofisiche che volessimo dichiarare. Insomma: ogni cosa che possa esser d'aiuto al sistema per qualificarci ed utilizzarci al meglio ed a noi per trovare un inserimento adatto e gradito.

Immaginiamo che il sistema Public Work 2.0, una volta terminata l'acquisizione dei dati della nostra persona, ci chieda entro quanto tempo desideriamo essere inseriti in una organizzazione lavorativa: se preferiamo mantenerci per un po' di tempo in attesa di un lavoro in particolare, o semplicemente per godere di un periodo di riposo, oppure se desideriamo immediatamente impiegarci in qualche attività. Immaginiamo che a questo punto il monitor ci offra una schermata contenente la lista o rosa delle disponibilità presenti, ordinate a nostro piacimento per tipologia, retribuzione, località, durata dell'incarico, data di scadenza dell'impiego del presente addetto e subentro del nuovo che saremmo noi.

Già, il subentro: è a questo punto che appare evidente la differenza tra un qualsiasi sito di collocamento nell'ambito delle attività private ed un ben più composito sistema di inserimento all'interno delle Pubbliche Attività ..."

tratto da http://public-work-2.0.hyperlinker.org



I migliori saluti,

Danilo D'Antonio

Monti della Laga
Teramo - Abruzzo

tel. 339 5014947




p.s.: mi aggiungerebbe alla vostra newsletter? grazie. dd

Anonimo ha detto...

imparato molto