lunedì 22 giugno 2009

Il lavoro cognitivo/2



Possiamo dunque affermare che tutti i lavori sono cognitivi. E questo non implica che se tutti lo sono, nessuno lo è davvero, perché ogni lavoro è inserito in una filiera cognitiva a intensità maggiore o minore. Ma la domanda da porsi diventa: chi sono i soggetti e i processi che producono maggiormente innovazione, ovvero valore? Enzo Rullani, nel saggio “L’economia della conoscenza e il lavoro che innova” sempre nel volume “Knowledge working” distingue tra conoscenza e innovazione. L’innovazione rompe un equilibrio (o stasi) cognitiva, la conoscenza alterna propagazione (l’insegnamento, ad esempio) e nuove conoscenze.

Come nasce e come si afferma un’innovazione? Ancora manca un saggio che provi a fare la biografia di alcune innovazioni, a capire come, dopo aver avuto l’intuizione giusta, i vari innovatori hanno difeso e diffuso le loro acquisizioni, e quali contesti sono stati più recettivi o più ostativi verso l’innovazione.

Come una società promuove modelli di innovazione? L’insieme di variabili è ampio: tra i quali di certo contano l’educazione diffusa, gli investimenti in ricerca pura ed applicata, l’anticonformismo (Richard Florida la chiama Tolleranza) inteso come capacità di accettare e sostenere percorsi e approcci eterodossi negli ambiti più vari. Rullani evidenzia la triade accesso-uso-moltiplicazione: non si innova se non c’è accesso diffuso alle conoscenze, capacità di utilizzarle e di moltiplicarne gli ambiti e le occasioni di applicazione. Ma nello scenario attuale l’Italia ha troppe imprese che hanno sfruttato il capitale sociale circostante senza investire in capitale intellettuale.

Vi sono dei meccanismi di innovazione riconosciuti e valorizzati da secoli, come i brevetti. Certo, non tutti i brevetti producono un valore capace di ripagare la lunga filiera cognitiva, relazionale e sociale che li ha resi possibili., Ma di certo all’incrementare del numero dei brevetti aumenta anche la probabilità che essi producano un valore significativo e prolungato nel tempo. Accanto ai brevetti vi sono tantissime altre innovazioni meno definite, più fluide che attraversano tutti gli ambiti professionali. L’innovazione di un idraulico può dargli un vantaggio competitivo sui suoi colleghi di zona per un periodo di tempo ma il contesto attorno riuscirà a garantirgli risorse economiche e competenze per meglio elaborare e magari sviluppare a livello industriale la sua intuizione? Oppure, come tante innovazioni isolate, rimarrà un vantaggio temporaneo, dal fiato corto e destinato a venire imitato da tutti?

I paesi e i territori vincenti nell’economia della conoscenza sono quelli capaci di sviluppare in maniera più frequente e intensa processi di innovazione.

Una politica per l’innovazione dovrebbe partire dalla detassazione di tutti gli investimenti in formazione, ricerca e sviluppo, sia a livello aziendale che a titolo personale. Investimenti detassati, sgravi sui contributi per tutte le assunzioni a tempo indeterminato di personale impiegato negli ambiti di ricerca e sviluppo di prodotto come in quelli legati alla comprensione dei mercati (analisi, comunicazione. distribuzione), riduzione dell’Iva al 4% per tutti i corsi di formazione. E l’elenco è talmente lungo che invito i lettori a integrarlo.

L’innovazione non è frutto di una botta di culo, ma di una strategia che non definisce a priori i risultati finali ma che sa creare in maniera efficace le condizioni di base affinché questa avvenga.

Ma la classe dirigente italiana da tempo ha perso la capacità di elaborare delle strategie di sistema.

4 commenti:

Anonimo ha detto...

La ringrazio per intiresnuyu iformatsiyu

Anonimo ha detto...

quello che stavo cercando, grazie

Anonimo ha detto...

quello che stavo cercando, grazie

Anonimo ha detto...

good start