E in effetti ancora poco si conosce dei meccanismi che ingenera un sito web che tocca la vita di oltre mezzo miliardo di individui nel mondo. E pochi hanno provato a rispondere alla domanda centrale: come cambia la percezione che abbiamo di noi stessi, e il sistema di valori, di priorità di canoni che applichiamo agli altri a seguito dell'ingresso di facebook nelle nostre vite?
A fine 2009 è stata pubblicata una ricerca sulla rivista “Cyberpsychology & Behaviour” che provava a capire quali sono i meccanismi che spingono gli studenti universitari ad aderire ai gruppi su Facebook. La ricerca, condotta su 1.715 studenti di due università texane, ha fatto emergere 4 bisogni primari: socializzazione, intrattenimento, verifica degli status, informazione.
Come era facile immaginare, chi su facebook ricerca informazioni è più pronto a coinvolgersi in iniziative sociali e politiche. Tra l'altro si è notata anche una correlazione significativa tra l'impegno civico e alti livelli di soddisfazione verso se stessi e di fiducia verso gli altri. L'altro importante gruppo di persone cerca lo svago, coinvolgendosi in attività abituali e rassicuranti, quali hobby e interessi non legati a temi sociali. Lo studio sottolinea che gli R-quadro della ricerca sono alquanto bassi e altre variabili dovrebbero essere ipotizzate per spiegazioni più convincenti, eppure si stagliano chiari i due gruppi: il classico conflitto informazione Vs. svago, che caratterizza peraltro anche i media tradizionali. Dunque tutto come prima?
Se ci concentriamo sugli utenti meno indirizzati verso le informazioni e dunque verso un un impegno sociale la risposta è no.
Se la televisione propone modelli aspirazionali che il telespettatore può solo accettare o rifiutare, facebook promuove al contempo nei suoi utenti voyerismo e autoreferenzialità, spinge a vedersi come “piccole celebrità” di cui gli amici aspetterebbero con ansia gli aggiornamenti dello status, a credere di vivere in un “grande fratello” digitale dove si esibisce il proprio io, fatto di note, foto, giochi, battute, in attesa dei “likes” dei propri amici-fan.
In un vecchio post ho citato “l'ansia di autonarrazione del nostro tempo” ma oggi bisogna domandarsi se quest'ansia è creata dai social network o viene sfogata in essi.
Non sono il primo (rimando a Andrew Keen e al suo “The Cult of the Amateur”) a trattare il narcisismo digitale. Ma non voglio descrivere passivamente un fenomeno, tanto iniziare a capire come esso influisce su noi stessi nella vita di tutti i giorni. Nei social media molto spesso vi è una conversazione in cui al centro non c'è la scoperta dell'altro ma l'affermazione del proprio io. Gli stessi servizi di chat, nonostante l'infinità di emoticon ora disponibili, offrono un livello di interlocuzione semplificato e poco profondo. Se l'ideologia televisiva fa sentire delle nullità tutti coloro che sono fuori lo schermo, l'ideologia dei social media illude tanti di riguadagnare una centralità sociale solo perché il proprio monologo è inframmezzato da qualche “like” o perché si viene aggiornati sugli status irrilevanti e ripetitivi degli “amici”.
Oggi l'esibizione della chiacchiera sul proprio io, speculare al bisogno di rassicurazione sulla propria esistenza, è diventato quasi un bisogno collettivo, un modo di essere nella società di cui non comprendiamo ancora bene le conseguenze ma di cui la comunicazione come la politica devono tenere conto.
(nell'immagine la crescita degli utenti di facebook nel mondo da dicembre 2007 a ottobre 2010)