domenica 31 gennaio 2010
"Cribbio, ci mancavano anche i comunisti svizzeri!"
Lo Huffington Post si è divertito a ricavare la graduatoria inversa, ovvero le 12 aziende peggiori al mondo sotto il punto di vista etico. Ed ecco che l'Italia può essere doppiamente orgogliosa: perché è riuscita a piazzare all'undicesimo posto tra le aziende meno etiche al mondo una importante realtà nazionale e perché questa realtà aziendale altro non è che la Mediaset del primo ministro Berlusconi, accusata tra l'altro di usare il potere politico del suo fondatore per creare condizioni di mercato più difficili per i concorrenti.
Già immaginiamo la reazione dei pasdaran del partito dell'amore: si tratta di un'imboscata mediatica da parte di quattro criptocomunisti svizzeri. Ma gli aspiranti vice-Bondi di turno (esistono, esistono: dopotutto ognuno aspira secondo le sue capacità) possono star tranquilli: nessun importante testata giornalistica italiana ha ripreso la notizia. A salvare quel poco di pluralismo informativo che resta in Italia sono stati ancora una volta alcuni blog e il sito Giornalettismo.
Forse cambiano anche le aspirazioni dei giornalisti: un tempo si entrava in redazione sognando di poter poi diventare un grande inviato capace di scoprire storie, conoscere persone non comuni, scovare fatti trascurati, imbattersi così in scoop memorabili.
Oggi si sogna di diventare direttore del tg1.
martedì 26 gennaio 2010
Genii e presunti tali
"«D'Alema non ne ha indovinata una da quarant'anni, si presenta come il più esperto di tutti, in realtà le ha sempre sbagliate tutte». Giudizio che arricchisce con un stoccata: «Non ne indovina una da quando non finì il corso di laurea alla Normale. Da lì è stato un susseguirsi di errori»".
martedì 19 gennaio 2010
Privilegi
domenica 10 gennaio 2010
Calzolai con le scarpe bucate
Il reddito non riflette il merito, questo ha dimostrato il recente rapporto "A bit rich", redatto dagli economisti di nef (new economics foundation). Se questo vale per il Regno Unito (dove si è sviluppata la ricerca), figuriamoci cosa accade in un paese scarsamente meritocratico come l'Italia. E ancor di più cosa accade in Italia a professioni ben poco definite o considerate come quelle relative al gurgite vasto della comunicazione e del marketing.
Non sono l'unico a ritenere che da alcuni decenni stia avvenendo un grande travaso di ricchezza dalle fasce più povere di molte società verso quelle più benestanti, ma lo studio della new economics foundation evidenzia anche i pregiudizi che ancora incrinano la legittimità delle professioni legate alla comunicazione.
Come si costruisce nella percezione sociale diffusa il valore, l'utilità, la legittimità di una professione?
Cosa rende un lavoro più prestigioso (e quindi spesso più pagato) di un altro?
Quali sono i fattori che influenzano il riconoscimento sociale di un'attività lavorativa?
Nel precedente post parlavo di un profondo problema di identità e legittimità che attraversano tante professioni legati ad aspetti “soft”, immateriali, relazionali nella catena di produzione del valore. Mi domando perché le organizzazioni professionali, a partire dalla FERPI, non si propongano di sviluppare e realizzare un piano di comunicazione di prodotto nazionale in cui il prodotto non sia altro che le qualità e il valore aggiunto del comunicatore professionale. Non si tratta di parlarsi addosso, tutt'altro. Si tratta semmai di evidenziare tutti gli aspetti del valore aggiunto che una professione multiforme, cangiante e trasversale riesce a trasferire a organizzazioni e imprese.
Qualche tempo fa un mio ex allievo, oggi professionista in un'importante agenzia, mi ricordava: “è proprio vero che il calzolaio finisce per avere le scarpe bucate”. Sarebbe ora non solo di ripararle, e anche di passarci il lucido.