“Bisogna essere assolutamente moderni”, scrive Arthur
Rimbaud nel 1873. “Bisogna essere assolutamente social”, dicono in tanti nel
2013, giusto 140 anni dopo. Ma che cosa implica “essere social”?
Nel 1979 Jean François Lyotard teorizzò, in un librettodestinato a grande fama, l’avvento dell’età post-moderna, la cui caratteristica
principale era la fine delle “grandi narrazioni”, politiche, religiose,
nazionali. Da allora il prefisso post è stato messo un po’ a tutto: fino a
teorizzare i post-italiani e la post-nazione, di cui l’Italia attuale è (sarebbe, per gli
ottimisti) un paradigmatico esempio.
Se risulta innegabile che le grandi narrrazioni politiche
che hanno alimentato le opzioni sociali per gran parte del Novecento sono oggi
affievolite o marginali (illuminismo, comunismo-socialismo, liberalismo), è pur
vero che gli ultimi trent’anni la grande narrazione del mercato nella sua accezione
neoliberista ha dominato e condizionato la scena politica e sociale. Sbagliava
dunque Lyotard a ritenere che non sarebbero emerse altre idee totalizzanti,
capaci di imporsi per alcuni addirittura come verità incontrovertibili. Quante
persone, ad esempio, hanno rinunciato alle loro inclinazioni umanistiche e si
sono adattate a crearsi una professione che rispondesse alle esigenze del
mercato? Quanto la propaganda neoliberista veicolata dai mass media ha imposto
certe logiche e certe retoriche ad organizzazioni come ad interi stati? Non è
questa una grande manipolazione dei bisogni e delle aspirazioni simile a quella
che impongono i regimi totalitari? Ancora oggi “il mercato” o “i mercati
finanziari” sono usati per far accettare decisioni anche arbitrarie prese da
chi queste entità, rappresentate quasi come ipostasi apofantiche, le muove in
funzione dei propri interessi.
Oggi la nuova grande narrazione si chiama “social”. Siamo
spinti a essere presenti sui media sociali e a interagirvi, a creare contenuti,
a relazionarci con innumerevoli soggetti, il tutto per giustificare,
confermare, rafforzare la nostra presenza, ovvero la nostra esistenza “social”.
Come dice David Meerman
Scott “on the web you are what you publish” e aggiunge: “if you publish nothing
you are nothing”. Se produci contenuti interessanti creerai attorno a
te interesse, reputazione e forse anche possibilità di sfruttare
commercialmente tutto questo. Ma le modalità che i singoli hanno di estrarre
valore dalla loro identità e dai loro comportamenti digitali sono infinitesime
rispetto a quanto ottengono da essi le grandi piattaforme di comunicazione come
Google, Facebook e tutti i media sociali. Per essi, questo “essere social”
produce valore, anche monetario, poiché viene incanalato nei meccanismi di
analisi dei Big Data. Il “valore social” di un fatto, di un contenuto, di una relazione
finisce per essere pari alla possibilità di immetterlo nei processi di estrazione
del valore, di metterlo in connessione con altri dati e di rendere questi dati
immediatamente utilizzabili per azioni commerciali o politiche o di qualsiasi
altro genere purché trovino un acquirente.
Le piattaforme
social sono oggi lo strumento di sfruttamento biocapitalistico della naturale
tendenza sociale delle persone. In realtà, non basta che Facebook
prometta di essere per sempre gratuito: tutti i media sociali dovrebbero pagare
gli utenti per ogni contenuto postato, sia pure pochi centesimi di dollaro,
come fa Google AdSense.
Questa spinta a “essere social” è la grande narrazione
dei nostri giorni e come ogni grande narrazione finisce per condizionare le
scelte e le vite di decine di milioni di persone in tutto il mondo. Ci sono
ambiti professionali in cui non si può scomparire dal proprio “mondo social”
per più di qualche settimana se non si vuole rischiare di scomparire nella
visibilità e quindi nella possibilità di essere ingaggiati come esperti.
L’ “essere social” è dunque la socialità attraverso i
media sociali e il web, con regole sue proprie e non confondibile con la
socievolezza personale: un timidone può essere un social influencer nel mondo
digitale.
Soprattutto l’ “essere social” ha la caratteristica di
essere monetizzabile, anche quando il messaggio postato sul media sociale
sembra il più intimo e soggettivo possibile.
Prendiamo il caso di due amiche che si incontrano,
staccano i cellulari e parlano fittamente di scelte legate alle loro esistenze.
Esse producono molto meno “valore social” di due conoscenti che su facebook sviluppano
un thread di politica anche fatto di insulti. Dalla secoda situazione si
traggono dati utili a tracciare una tendenza e quindi a produrre analisi e
dinamiche di comportamento elettorale. Nel primo caso il contenuto, essendo non
tracciato, non ha “valore social” eppure può rappresentare un momento
essenziale nel rapporto tra due persone.
Dunque, così come milioni di persone in tutto il mondo nei
decenni passati sono stati spinti a applicare alle loro scelte e ai loro
comportamenti una logica di “mercato”, oggi milioni di persone sono spinte a
ragionare in termini “social”. È un bene o un male? Non esiste una risposta
univoca. Che il mercato abbia aiutato milioni di persone ad uscire dalla
povertà è un fatto come lo sono anche le condizioni di sfruttamento in cui ancora
vivono tante altre decine di milioni di persone a causa delle “logiche di
mercato”. Quando interagiamo in termini “social” dobbiamo essere consapevoli
che stiamo producendo e regalando valore a chi utilizzerà quelle interazioni.
Finquando riterremo che il vantaggio che ne otteniamo è maggiore di quanto
regaliamo nessuno porrà dubbi. Il fatto divertente è che quasi nessuno di noi
conosce il controvalore del nostro "essere social" e veniamo costantemente
persuasi che “essere social” sia un valore di per sè. Pensate, per parallelo, a
come le tematiche relative alla privacy abbiano perso vigore e urgenza all’interno
del dibattito pubblico mentre al contempo i sistemi di tracciamento delle
nostre vite diventavano sempre più raffinati. Il sistema Prism scava nelle vitedigitali degli europei, cosa vietata negli USA: avete sentito il Garante della
Privacy o il Governo italiano inoltrare una pesante protesta all’amministrazione
Obama? Non solo perché ci troviamo, noi itaiani, in una posizione di minorità
economica politica, ma anche perché i
cosiddetti “nativi digitali” under 30 sono in genere poco sensibili verso la
tematica.
Ecco, torniamo al punto di partenza: la persuasione
diffusa è che “bisogna essere assolutamente social” ma siamo sicuri di sapere
cosa rischiamo di perdere attraveso il nostro ”essere social”?