Chi si attarda a
tentare di inquadrare il MoVimento 5 Stelle in uno schema di destra o di sinistra, chi
discute su se sia stato internet o la televisione a produrre il maggior numero
di voti, chi cerca un parallelo politico nelle esperienze estere o di altre
epoche (ne elenco alcune: qualunquismo, poujadismo, peronismo, personaggi come Viktor
Orban, Nigel Farage, Pym Fortuyn, eccetera) semplicemente non ha capito nulla non
solo del MoVimento, ma soprattutto non ha capito che il cambiamento intende impattare non solo sul sistema politico ma sull’assetto sociale complessivo del paese Italia e sulle ideologie dominanti, intese come retoriche che legittimano comportamenti e assetti di potere.
Democrazia, rete,
rappresentanza
Nel 1995 la rivista
Time pubblicò una copertina dell’edizione internazionale con un ritratto di
George Washington con due auricolari: wired democracy, recitava il titolo.
Wired come connessa, ma anche come recintata: processi decisionali basati sull’informatica
che possono escludere più che includere. La rivista già parlava di un
“populismo elettronico” , che, in polemica opposizione alla distanza tra eletti e
cittadini, spingeva i politici a
prendere in considerazione ogni sondaggio, ogni telefonata o fax, ogni
iniziativa promossa da talk show televisivi o radiofonici, con il rischio di
creare un corto circuito tra media e democrazia rappresentativa. Che ne è del processo decisionale esperto se esso si fa condizionare da umori e passioni che non trovano un momento di elaborazione e confronto con visioni opposte? Dunque l’ambivalenza
dei media e di internet in rapporto alle forme di partecipazione popolare non è
cosa nuova a chi se ne occupa.
All’ambiguità dei
media e ancor di più di internet si aggiunge anche l’ambiguità del concetto di
democrazia, parola che sembra inequivoca, bella e lucente, usata, quasi sempre
a sproposito e sulla base di un equivoco, per rendere inattaccabile ogni frase
in cui la si cita o la si celebra.
Ma cosa si
intende quando si parla di democrazia? Si crede comunemente che tale concetto
sia nato nella Grecia classica ma si tratta di una mera assonanza fonetica.
Democrazia era un termine usato spregiativamente dai nobili per indicare
letteralmente “lo strapotere brutale del popolo” e Tucidide fa dire a Pericle
che “La parola che utiliziamo per definire l’organizzazione del potere
cittadino è democrazia per il fatto che essa, nell’amministrazione, si
qualifica non rispetto ai pochi ma rispetto alla maggioranza”. E la maggioranza
che aveva diritto di partecipare alle assemblee dell’agorà era costituita in
effetti da una minoranza, composta solo dai maschi adulti che possedevano
abbastanza risorse per pagarsi l’attrezzatura militare. Lo stesso Tucidide
afferma che ad Atene non c’era la tanto vituperata democrazia (strapotere del
popolo) ma un principato, inteso come governo di un protos aner, lo stesso
Pericle, appunto. (Cfr. Luciano Canfora, La democrazia, storia di un’ideologia).
Da queste
ambiguità duplici e tra esse intrecciate discendono oggi tutte le idee e le
false metafore che parlano di internet come la nuova “agorà”, meglio come di
un’agorà digitale”. Siamo costantemente vittime di giustapposizioni logiche che
quando riescono a diventare metafore finiscono per confonderci e per spingerci
a non interpretare i fenomeni “iuxta propria principia”. La democrazia moderna
è un’agorà greca oppure è un governo del popolo, dal popolo, per il popolo,
come la storica definizione di Lincoln? Quali aspetti della democrazia
modernamente intesi vengono toccati da internet? Per arrivare al tema del
momento: l’uso che Grillo fa della rete è davvero “democratico”?
Tra le tante
declinazioni moderne della democrazia ce ne sono due che approfondirò:
democrazia come diritto d’accesso (a informare, informarsi ed essere informati) e democrazia come
“governo in pubblico”.
Vediamo il primo
caso. Checché ne scriva Serena Danna, il blog di Beppe Grillo è stato in questi
anni il principale luogo di informazione su fatti e iniziative spesso
volutamente ignorati dai media mainstream in Italia. Una serie di tematiche che
il sistema dei media rifuggiva, minimizzava o censurava ha trovato spazio sul
blog di Grillo. Ricordo a memoria il dramma di Federico Aldovrandi, i danni
causati dagli inceneritori e dai ripetitori, il movimento No Tav. Il blog
ha offerto la possibilità a tanti cittadini di dire la propria tramite un
commento quando questo costume era ritenuto eretico dai principali quotidiani
online. Inoltre ha consentito lo sviluppo di dibattiti tra i partecipanti
attraverso i lunghi thread che si sviluppavano, ha creato degli opinion leader
(alcuni di essi oggi in parlamento) che partecipavano più costantemente e con
maggiore acume e preparazione alle discussioni. In questo senso sbaglia la
Danna a parlare di un utilizzo vecchio del blog. Il web sociale non è dato
dall’uso di piattaforme banalmente intese come social quali Twitter o Facebook ma dalla logica di utilizzo
del media stesso. Se utilizzi un blog per aggreggare sei più “2.0” di un’azienda
che sulla sua pagina facebook spara aggiornamenti in una logica meramente broadcast. Se non è sociale un blog che riesce ad
aggregare persone in migliaia di incontri reali sul territorio e finisce per
essere votato da 8,7 milioni di italiani non so cosa possa esseredefinito
“social”.
Ecco quindi che
il blog di Grillo (che si definisce, non
a caso, “il primo magazine solo in rete”)
ha creato una zona franca di discussione che oltrepassava l’agenda setting dei
media predominanti. La diffidenza se non il disprezzo verso i media
tradizionali non è stata dunque una strategia elettorale ma nasce da scelte
editoriali e da una critica di fondo ai media tradizionali elaborata su
numerosi episodi di censura o di distorsione dei fatti denunciati per anni da
Grillo.
Il secondo
elemento democratico è quello del “governo in pubblico”. In questo senso il
blog di Grillo si inserisce in una corrente molto più ampia che ha avuto il suo
apice in Wikileaks. I rimborsi elettorali sono quasi folclore rispetto all’idea
di portare le telecamere dei cellulari dentro le Camere e dentro le Commissioni
parlamentari. In questo vi è una radicalità che trovo difficile non definire
democratica, nel senso appunto di una costante scrutinabilità del potere da
parte del cittadino informato.
Quindi una rete
intesa come strumento di governo in pubblico, questo sì considerato dai grillini
come un elemento di rottura rispetto all’opacità che caratterizza i processi
decisionali italiani. Ovvio che questo principio, praticato da sprovvedute come
Gessica Rostellato, porta a situazione patetiche e ridicole. Facile prevedere
che ve ne saranno altre: la profondità di comprensione delle dinamiche della
rete tra i promotori del Movimento e alcuni eletti in Parlamento è abissale.
Questo ci porta a ragionare nel prossimo post sul modello di governo della rete. Se non vi è un centro e la rete è per sua natura acefala, la leadership non è in un punto della rete (dove al massimo ci può essere un'aggregazione di attenzione e di reputazione), ma dietro o sopra di essa, ovvero in chi crea le condizioni e l'architettura logica e ideologica della rete.