Nella sua analisi di “Storia
dell’occhio” di Georges Bataille, Roland Barthes contrappone poema e romanzo:
all’”immaginazione timida” del secondo, “che non osa dichiararsi se non sotto
cauzione del reale”, il critico francese contrappone la potenza del poema, che
dice “ciò che non potrebbe accadere in nessun caso, salvo che nella regione
tenebrosa e ardente dei fantasmi, regione che, proprio per questo, esso è il
solo a poter designare, (...) esplorazione esatta e completa di elementi
virtuali”.
Leggere dunque Lo Scuru come un
romanzo e non come un poema porta a incomprensioni gravi, che pure sono apparse
in queste prime settimane dalla sua uscita. Valutare un testo, una scrittura, e
volerlo per forza incasellare in quello che secondo un critico dovrebbe essere
un romanzo (il cui successo nei secoli sta proprio nella sua natura multiforme)
è meno un errore che un indizio di scarsa fiducia nella letteratura.
Poema interiore dunque, che evoca
un mondo ctonio e la lotta di Razziddu Buscemi per affrancarsi da esso, pur
essendone parte. Racconto di quel fondo magico che la religiosità barocca e
controriformistica meridionale ha protetto dalla razionalizzazione nordica del
sentimento religioso attuata dal Protestantesimo, la quale invece guardava
verso l’alto per scrutare un dio tanto distante da risultare al fine inaccessibile.
Il cattolicesimo mediterraneo è invece assediato dalle infinite manifestazioni
di un abisso ancestrale, per difendersi dal quale ha prodotto per secoli
muraglie di santini, cortine di devozioni, raccolte di effigi di antenati e di
mostri, amuleti contro le potenze oscure che abitano l’anima del mondo e delle
persone.
Il Signore dei Puci di Butera,
con cui il giovane Razziddu ingaggia una lotta letale, è la statua di un Cristo
trasformato in un mostro dalle energie ancestrali che attrae e diffonde. Solo
il cattolicesimo barocco ha saputo intuire la coessenza in fenomeni religiosi
arcaici di potenze al contempo salvifiche e infernali, e renderle manifeste in
processioni oscure come quelle della Settimana Santa, quando il sacro ritorna
buio e indistinguibile, inquietante e disperante. Una messinscena oscura, dove
le statue sono illuminate da baluginii fiochi e diventano specchi mobili e
allusivi di un orrore indicibile e senza fine, una oscurità tuttoavvolgente,
dimensione priva di temporalità perché antecedente al tempo.
L’analessi narrativa introduce a
una biografia antespettiva dell’autore verso una fuga vageggiata nei territori
della propria ascendenza letteraria ideale, di una lotta interiore di Razziddu
mai risolta nemmeno in punto di morte. È il legame salvifico con l’amata Rosa,
la cui morte riapre l’abisso interiore del protagonista ormai anziano cui riemergono
le antiche visioni, che lo spinge a proiettarsi con la fuga nella modernità
nordamericana fondata sulla razionalità giuridica. Una razionalità agognata dal
giovane Razziddu, lui “creatura di zolfo” per bocca della nonna, come soluzione
e pacificazione dei conflitti che lo circondano, eppure dall’esito vano: “Così
il ragazzo (...) decise di franare col tempo, osservare, e ancora frenare,
tuculiare la macchina di legno e poi spicchiare la fisica provando a risorgere
in un’altra epoca o secolo in cui la superstizione sarebbe stata debellata da
Butera e un’emulsione di lucidità purissima, di giubilo, avrebbe ricreato i
rapporti tra i paesano secondo una formula matematica” (pag.90); “ogni oggetto,
dentro Butera, era dunque una particellare definizione del fallimento di
un’evoluzione moderna” (pag.88).
L’analessi consente il racconto
di un universo metamorfico dove la maga Minica invita Razziddu a non uccidere (“U
cutieddu. Scappa. Non farlo”, pag. 44) e settanta pagine dopo si capirà che si
tratta di una preghiera a non uccidere il suo doppio Nitto. Universo
metamorfico prodotto altresì da una lingua che non è tocco di colore, ma è
potenza espressiva di una personalità in fieri sospesa tra instintualità e
razionalizzazione, tra fedeltà a terra e famiglia e necessario e inevitabile
tradimento, tra urgenza espressiva e ordine sintattico. Dunque una lingua non
folcloristica, certo di difficile comprensione, ma che traduce il magma non
stabilizzato di un racconto fatto da forze violente, una lingua di cui seguire
i suoni duri, estranei, come allusione di un mondo non ancora toccato da un
ordine razionale della parola.
Una lingua in cui termini e
costrutti in siciliano stretto rappresentano fratture della superficie
linguistica tradizionale, della razionalità confortante ordinaria, geyser da
dove far fuoriuscire la violenza di un conflitto interiore e e le pulsioni di
un mondo arcaico, potente e spietato. Con
la sua scrittura multiforme per linguaggi, registri e ascendenze letterarie, Orazio
Labbate non si limita a narrare una storia, ma scava un fondo rimosso, raschia
il banale dai significanti più adusati, piccona la linearità rassicurante di
tanti romanzetti d’esordio.
Ecco, l’esordio. Poco ci si
interroga su cosa spinga una persona a rompere la timorosità e a dire, e a dire
in pubblico. Per me emulazione ed esplorazione sono le due dimensioni che sommuovono
il vero talento. Se Razziddu pescatore è un fratello minore di Suttree di
Cormac MrCarthy (evidenzio la passeggiata dopo il mercato delle pagine 65-66 e il
deliquio delle pagine 30-31), la lingua che ha plasmato Orazio Labbate è
strumento di esplorazione interiore e sociale, ardua perché il fondo che
intende evocare precede la sintassi e il lessico che riordinano e nascondono
gran parte del nostro io.
Lo Scuru è lotta,
entusiasmo, passione, inquietudine, ricerca, fuga, delirio. Ma soprattutto ambizione
di fare letteratura e di dire tramite essa una parola originale sul mondo e
sull’esistenza.