Comunicazione e
biocapitalismo sono strettamente interrelati poiché non sarebbe stato possibile
mettere in pratica le tecniche di sfruttamento biocapitalistico senza la
promozione e la diffusione di un sistema di persuasione capace di spingere i
soggetti a mettere a valore i loro interessi privati, le loro relazioni
sociali, il loro vissuto psichico, in una parola: le loro identità.
Il bios e psiche
sono state le ultime frontiere da conquistare di un capitalismo alla ricerca
costante di una redditività del capitale sempre maggiore, raggiungibile o
attraverso la matematica dei derivati o attraverso un induzione di senso su
oggetti e pratiche capace di sganciare definitivamente gli stessi da ogniparametro oggettivo di valore.
Negli ultimi
decenni, in maniera consapevole o meno, quasi chiunque abbia lavorato nel mondo
della comunicazione ha partecipato alla costruzione di un modello economico e
sociale il cui obiettivo è stato e resta quello di sfruttare in contemporanea la
digitalizzazione dei beni, la pervasività delle tecnologie della comunicazione,
l’incremento del livello di conoscenza dei soggetti e il loro istinto per la socialità
per colonizzare i tempi di vita e i parametri di giudizio (diciamo pure i
valori) di centinaia di migliaia di persone nelle nazioni più evolute della
terra. E quale è stato il risultato? Gran parte delle vite coinvolte in questa
fabbrica transnazionale di conoscenza e relazioni hanno subito un impoverimento
relazionale, culturale ed economico di cui spesso hanno preso contezza solo
grazie alla crisi attuale.
Allora ci si
accorge che vi è un continuum di tecniche e strumenti che vanno dalla
reperibilità totale offerta dal cellulare all’utilizzo del proprio privato pur
essere visibili su Facebook: tutte queste sono al contempo forme di comando
biocapitalistico sulle identità degli individui, i quali “esistono” solo in
quanto e finquando inseriti in una rete di legami capaci di valorizzare il loro
vissuto e le loro competenze. Il valore
nasce dai tempi di vita, dall’esperienze di vita, dal proprio vissuto psichico
messo a disposizione di un’impresa, sia essa datrice di lavoro o azienda
creatrice di un media socializzante.
Al centro di
tutto vi è la necessità di massimizzare il valore per gli azionisti. E la
imminente quotazione di Facebook per 100 miliardi di dollari non rappresenta in
maniera palmare questa nuova fase in cui la massimizzazione del profitto per gli
azionisti diventa intimamente legata alla messa a valore del vissuto delle
persone?
Di fronte alla
crisi tutti coloro che fanno comunicazione dovrebbero chiedersi: per chi ha
creato valore la comunicazione in questi anni? Per i committenti, certo, qualche
volta anche per i comunicatori stessi, meno spesso per i fruitori della medesima
ma tutto è confluito nell’esaltazione di un assetto sociale ed economico la cui
crisi corrode gradualmente, dal basso verso l’alto, le certezze di strati
sociali che mai si sarebbero immaginati a rischio.
Allora mi chiedo
se i comunicatori non debbano lasciarsi alle spalle i dibattiti triti tra advocacy e
trasparency e avere il coraggio di immaginare nuovi parametri e nuovi valori
necessari per affrontare declino, decrescita e impoverimento generalizzato come
anche la costruzione di nuovi percorsi di vita scevri o almeno parzialemnte
protetti dallo sfruttamento biocapitalistico.
In Italia mi
sovviene solo il nome di Simone Perotti se penso a qualcuno capace di
riguadagnare se stesso rinunciando alla carriera e alla fascinazione della
manipolazione da cui tanti comunicatori sono attratti. Vi è una modernità che sa usare i media
sociali senza farsene vampirizzare. E vi sono delle vie di fuga, quali la cultura slow e i modelli di
downshifting diffusi proprio da Perotti. Ma ce ne sono altri che devono essere
ancora sviluppati, argomentati, fatti conoscere. I limiti del pensiero
pensabile, come dice Chomsky, devono essere oggi più che mai oltrepassati.
La comunicazione sarà
capace di farlo? saprà diffondere questi nuovi valori, alternativi oggi ma
forse essenziali per sopravvivere al futuro?