Vi è stato un tempo quando i professionisti delle relazioni pubbliche erano guardati da molti in Italia un po’ come tanti conti Raffaello Mascetti, signori sostenuti ma di base cialtroni, pronti sempre a sparare le loro supercazzole in ambito aziendale, come anche in quello privato. Se nell’opinione comune alla professione di giornalista era destinato il figlio meno dotato delle famiglie borghesi, la professione del comunicatore era addirittura di rango inferiore, leggerina, destinata a chi non poteva dare altra mano in azienda che evitando di fare danni.
Altro era il prestigio e l’orgoglio dei venditori che
producevano i fatturati che facevano campare tutti, per non parlare degli
ingegneri, che suscitavano timore reverenziale solo a leggere il titolo “Ing.”!
Tali realtà aziendali, dove assumere un “ragiunier” neglianni Sessanta pareva mettersi una serpe in seno, sono magari diventate oggi tra
i più grandi investitori nel campo della comunicazione e del marketing. Negli
ultimi quarant’anni, grazie a FERPI e ad altre associazioni di settore, vi è
stato non solo un necessario e inevitabile processo di accreditamento ma anche
una enorme crescita di competenze, di responsabilità e di prestigio che si sono
stratificate sulla professione del comunicatore.
Sembrava fatta, mai più guardati come dei conte Mascetti,
anche se tanti colleghi proseguivano imperterriti nel lanciare comunicati
stampa dove si parlava di prodotti “all’avanguardia nel mercato”, di “soluzioni
innovative”, di “visione strategica”, di “modello di eccellenza” e altre
supercazzole con vari scappellamenti laterali, spammando senza pietà le caselle
di posta più ritrose.
E invece, proprio quando sembrava fatta, arriva il
fantasmagorico “digital”. Ora tutto è digital e tutto diventa bello, nuovo e
utile se è anche digital. Hai un corso di specializzazione che cala
costantemente per iscritti? Mettici dentro il titolo la parola digital e le
cose miglioreranno in automatico. Hai un collaboratore pseudocreativo
smanettone e non sai se è un genio o un coglione? Definiscilo “digital
strategist”: non cambierà la testa ma la dicitura farà di certo colpo. Non sai
dove andare a vendere con una crisi che ti erode il mercato e le hai provate
tutte in termini di marketing? Punta a proporre ai vertici una campagna
digital, peggio che vada potresti salvare il tuo posto di lavoro.
Lungi dal pensare che la comunicazione e il marketing
attraverso il web siano solo una moda passeggera, ma come districarsi in una
selva digitale e cangiante di competenze più o meno tali, di corsi e percorsi
proposti dai vari “esperti” (nel web tutti sono esperti di qualcosa), di
metriche che provano a quantificare parametri estremamente diversificati, come
se fosse antani, per giunta?
Emergono dal nulla tantissimi conti Mascetti, con in più la
boria di chi spara termini e acronimi astrusi, nuovissime supercazzole della
nostra epoca: KPI, CMS, RSS, SEM SEO e SERP (son parenti questi tre,
tranquilli), SMM ROI e così via, per l’interdetto e la frustrazione del cliente
che vorrebbe solo capire se questi strumenti possono essere davvero utili per i
suoi obiettivi aziendali e come si possono integrare con le azioni di
comunicazione che già porta avanti.
Come si fa a definire ambiti, competenze, richieste e servizi
in un contesto dove mancano troppo spesso dei parametri oggettivi, dove la
qualificazione professionale è lasciata all’autopromozione, dove chi spiega
come scrivere i tweet in corsi per principianti si sente uno stratega del web
marketing di chiara fama grazie ai suoi 1000 amici su facebook, dove trovi il
blogger che in 20 righe di un post o con una infografica vuole spiegarti un mercato o libri interi?
Recentemente, promuovendo la masterclass sul marketing digitale che David Meerman Scott terrà a Milano, per la prima volta nel nostropaese, il 9 maggio prossimo, mi è capitato di discutere con una “digital
strategist” che ha definito David un “visionario”. Come? – faccio io – lui che
è semmai accusato di piegare le rp al marketing e alle vendite in un approccio
estremamente pragmatico? Poi ho capito che la tipa conosceva Scott per sentito
dire e confondeva il termine inglese visionary con l’italiano visionario. Però
lei è supercazzolanamente digital strategist, e decide la formazione digital
della sua azienda.
Al di là del caso personale, ad oggi nel nostro paese non
esistono associazioni professionali o istituti che possono certificare le
competenze più o meno millantate dai conti Mascetti digitali. E non credo
neanche che questa sia una strada percorribile, in quanto troppo ottocentesca,
troppo legata a meccanismi di accertamento e accreditamento che possono
funzionare solo in ambiti di sapere stabili e istituzionalizzati, come le
lingue o le scienze umane. Nel caso della comunicazione, del marketing, delle
pr e di tutti i settori investiti intensamente dalla trasformazione digitale l’unica
opzione resta quella di accrescere la cultura di base condivisa tra operatori e
fruitori dei servizi, al fine di avere strumenti comuni per la valutazione
delle supercazzole. Con scappellamento a destra, per due, si intende.