C’è un espressione
napoletana alquanto icastica e brutale: “fa' 'o gallo ‘ncoppa ‘a munnezza”. In
questo i consulenti e i presunti esperti (come chi scrive, ça va sans dire) riescono
sempre benissimo, sempre bravissimi a maramaldeggiare, in maniera ipocritamente
cortese e con proposte di una banalità sconfortante (“ripartite dalla vostra storia”), sugli errori dei loro colleghi. Ma non intendo parlare di
deontologia, non temete.
Semmai mi domando
perché ancora tutti parlano di internet ma pochi stanno cercando di capire
quali sono le dinamiche di comunicazione e come noi stessi ci trasformiamo
quando usiamo i media sociali.
Troppi hanno
accomunato Barilla e Enel solo perché oggetto, pressoché in contemporanea, di
iniziative di protesta sui media sociali, mentre si tratta di situazioni
distantissime. L’azienda elettrica pianifica con la Saatchi&Saatchi una
campagna alquanto minacciosa sin dal nome #guerrieri, provando a manipolare la
mediasfera italiana attraverso la piattaforma di analisi dei consumi ZZUB. L’imprenditore
a capo della multinazionale alimentare esprime con improntitudine la sua idea,
alquanto retriva ma legittima, sulla famiglia. Nel caso di Enel il management
ha dimostrato di non aver contezza di come viene percepita dai suoi utenti (almeno da quelli più attivi online e nella società) l’azienda di cui guida la
comunicazione: semplicemente Enel non sa dove se stessa si trovi nella
rete. Nel caso di Barilla internet è
stato usato per promuovere una protesta a seguito di un classico, seppur grave,
incidente di comunicazione con un media tradizionale dell’amministratore
delegato (e un certo giornalismo vive da sempre di interviste rubate e
manipolate).
Da una parte
abbiamo una creativa protesta nazionale che disintegra le ambizioni sbagliate di
una campagna di comunicazione, dall’altra una gregaria protesta internazionale che
attacca il prodotto stesso nel suo diritto a stare sul mercato. Fin qui, in
estrema sintesi, le differenze di base dei due casi. Ma credo che qualcosa li
accomuni.
Internet non è
solo il luogo della conoscenza e della conversazione ma anche il luogo della
protesta e del conformismo, e protesta e conformismo a volte possono essere
sinonimi. E invece ancora siamo tutti condizionati da una retorica che ha
presentato internet come un luogo di libertà e di liberazione, senza evidenziare
che anche in un ambiente alquanto vario e abilitante come internet noi
rimaniamo sempre condizionati dalla tecnica/tecnologia di comunicazione. E se
andiamo a studiare in profondità vediamo che se internet non è di certo passivo
come i media di massa, per lo più e per gran parte dei suoi utenti rappresenta un
contesto in cui la superficialità e le reazioni epidermiche prevalgono di gran
lunga sul discorso articolato e consequenziale. In questo senso è più facile
diffondere un NO netto che un sì argomentato. Pensate solamente ai limiti delle
chat, alla semplificazione imposta dai tweet, alla prevalente
autoreferenzialità di tanti wall su facebook.
Dovremmo
chiederci chi siamo noi quando siamo su internet e come cambiano le nostre
reazioni a stimoli che vissuti dal vivo o sui mass media ci farebbero reagire
in maniera radicalmente diversa. Al contrario troppi direttori della
comunicazione si approcciano al pubblico di internet come se avessero davanti
quello passivo della pubblicità o il dibattito colto delle lettere al direttore
nei periodici di qualità. Dimenticano che internet è un ambiente totale dove
ogni messaggio può essere manipolato e ricontestualizzato dagli utenti creativi
(e spesso i migliori esempi di viralità sono proprio i mush-up), mentre
tantissimi altri utenti sono pronti a sostenere la protesta o la buona causa
della giornata per puro spirito gregario e conformista.
Personalmente credo
che tanti che hanno diffuso #boycottBarilla abbiano fatto almeno una volta
nella vita commenti omofobi peggiori di quelli di Guido Barilla. E tuttavia
internet, tra petizioni, ashtag e vecchie catene di sant’antonio digitali (il “fate
girare” appare quasi ogni settimana sulla mia home di facebook), offre infinite
occasioni agli adoratori del politically correct di solleticare la propria
buona coscienza. Speculare all’esaltazione acritica di internet è proprio
questo politically correct che Robert Hughes chiamava “La cultura del piagnisteo”.
Così chi è consapevole di tutto questo finisce per gestire le pr digitali con
una buona dose di ruffianeria verso tutte le principali tematiche del
conformismo digitale. Tuttavia in questo modo si rinunzia a gran parte della
potenza di innovazione, e anche di provocatorietà, che risiede nella
comunicazione sul web.
Facile prevedere
che ora per paura che si scateni un “dagli all’untore” digitale, molte imprese
punteranno a una comunicazione web la più anodina possibile. E l’unica
navigazione che ci offre il gran mare di internet? La comunicazione digitale funziona
solo come sapiente uso dei media sociali per veicolare ipocrisia e buoni
sentimenti? Se il web è libero perché non dovrebbe ospitare opinioni lontane
dalla vulgata buonista purché non discriminatorie? Siamo sicuri allora che il
web sia più tollerante della carta stampata, dove si possono ancora trovare opinioni
divergenti senza il rischio di vedersi boicottare o aggrediti da
teppisti/conformisti/buonisti digitali?
Cosa e chi ci
permette di essere internet? Un essere creativo e primitivo al tempo stesso,
leader e gregario, nobile e bieco, razionale
e fanatico, propositivo o apatico, curioso o indifferente, il tutto all’interno
della stessa persona, nell’arco della stessa giornata. In realtà, ancora poco
sappiamo di questo essere.
Dopotutto per
decenni la comunicazione aziendale ha cercato di parlare a qualcuno che non
conosceva. Con internet questi sconosciuti reagiscono. Possiamo relazionarci a
loro con il silenzio, il vuoto conformismo, con la fuga o l’autoinganno. Oppure
cercando di capire come pensano e reagiscono su internet questi sconosciuti che
noi stessi siamo.