L'aspetto più tragico delle proteste di ricercatori e studenti di queste settimane non risiede nella violenza degli scontri o nella drammaticità di una condizione precaria che è diventata un dato strutturale di tante esistenze bensì nell'assenza di una proposta compiutamente biopolitica (nel senso che Foucauld già aveva sviluppato nelle lezioni al College de France nel 1979-80) ai fenomeni che si denunciano.
Vi è, questo sì, la consapevolezza sempre più diffusa che né la colonizzazione del tempo di vita da parte delle attività lavorative né la messa a valore delle proprie risorse cognitive, emotive e relazionali possono garantire, oggi e per il futuro, un ritorno economico capace di soddisfare i bisogni minimi di riproduzione del capitale cognitivo dei soggetti. E molto spesso nemmeno la mera autonomia materiale è possibile con i lavori cognitivi che il mercato italiano offre.
Il bios e la psychè, considerati fattori produttivi a tutti gli effetti, messi sul mercato italiano non riescono poi a generare uno scambio monetario soddisfacente per la parte che li cede.
Si assiste pertanto a una contraddizione in cui sembra inabbissarsi l'intero sviluppo economico del paese: da una parte si cerca di pagare il meno possibile un lavoro ridotto a mero oggetto di comando, quasi uno zoon di cui si compra la forza animale non consapevole, dall'altro tantissime soggettività cognitive che vorrebbero lavorare ad output immateriali attraverso la messa a valore del loro bios e della loro psyche si ritrovano in un contesto economico che non richiede a sufficienza, né in quantità né per qualità, il loro contributo e quindi finisce per pagarlo poco.
La politica si accorge del precariato come se fosse un fenomeno da aggiustare con qualche legge o un po' di crescita del Pil non cogliendo che si tratta invece della conseguenza della crisi del modello sociale e industriale italiano.
Sbaglia dunque chi pensa che il modello di Marchionne sia solo un nuovo modello di relazioni industriali: esso intende a fortiori delineare un modello di sopravvivenza per una intera nazione nell'epoca della globalizzazione. Che i costi di questa sopravvivenza debbano essere ripartiti nella società secondo logiche di mera redditività aziendale a Marchionne è chiarissimo. Non invece alla politica italiana, che si schiera a favore o contro sulla base di schemi ideologici superati. La destra vive tutto come una grande revanche contro il sindacalismo italiano di sinistra, un atto simbolico, come il successo della Thatcher sui minatori, capace di disarticolare l'avversario nelle sue basi sociali. La sinistra, anche quando vede lucidamente legami tra comando politico e comando dell'impresa come Giorgio Cremaschi (nel recente Il regime dei padroni, da Berlusconi a Marchionne), inciampa in meccanismi mentali e terminologie retrodatate: usare il termine padrone rievoca un'epoca in cui due chiare soggettività confliggevano in un contesto nazionale.
Oggi invece anche ogni Marchionne di turno deve fare i conti con una logica aziendale transnazionale che si può accettare o no ma cambiare poco o punto. Ed è qui che la politica vive la sua crisi, nella sua incapacità di elaborare risposte transnazionali a modelli biocapitalistici che attraversano nazioni e continenti. Non si tratta dunque di importare in Italia dagli USA un welfare compassionevole di stampo calvinista al posto dello stato sociale frutto del compromesso fordista-keynesiano, come scrive oggi Massimo Giannini su Repubblica, poiché nella logica della filiera del valore mondiale un paese in declino come l'Italia deve adattarsi ad avere meno in termini di diritti. Punto.
E nemmeno si tratta di una classica contrapposizione tra produzioni labour intensive o (cognitive) capital intensive, poiché nell'economia della conoscenza non vi può essere un'attività labour intensive che non preveda anche un forte investimento nel capitale cognitivo dei soggetti che la realizzano. Si parte invece dall'assunto che i due modelli, quello dell'individualismo anglosassone e quello dell'economia della conoscenza almeno propagandato dall'Unione Europea, non possano essere più applicati all'Italia e pertanto bisogna gestire un downsizing dei diritti di cittadinanza economica e sociale, conseguenza della marginalità del nostro paese.
Marchionne ha capito questo e si comporta in maniera coerente. Anche le fasce più consapevoli del sindacato lo hanno capito. Si oppongono come possono ma rinviare al passato è un modo per esonerarsi dalle sfide del presente.
Parlare di economia della conoscenza in un tale contesto nazionale finisce per avere ben poco senso, almeno fino a quando non verrà sviluppata una biopolitica capace di offrire nuovi spazi e nuove risposte a menti e corpi sotto scacco.