La mia considerazione riguarda non tanto l’export quanto la reale internazionalizzazione del sistema produttivo italiano, soprattutto delle piccole e medie imprese. Per tante imprese essere internazionali significa solamente essere presenti su un certo numero, più o meno ampio, di mercati esteri. In concreto: per ogni mercato si ha un accordo con un distributore locale, il quale paga le merci in anticipo e FOB e poi gestisce tutte le altre fasi, dallo sdoganamento alla scelta dei canali di commercializzazione fino alla definizione del prezzo. Possiamo definire questo approccio davvero un’internazionalizzazione? Per nulla. L’azienda che opera in questo modo non conosce niente dei mercati in cui arrivano i suoi prodotti; quando l’export manager va a trovare il distributore la sua conoscenza del paese si limita all’aeroporto, alla strada dall’aeroporto all’albergo e ai luoghi dove si svolgeranno le iniziative promozionali. Punto. Il distributore diventa il vero padrone del prodotto, decidendone posizionamento, pricing, distribuzione e immagine.
Naturalmente tante piccole e medie imprese risponderanno che sarebbe troppo oneroso creare delle sussidiarie in ogni paese dove si opera o inviare degli area manager in zone del mondo dove la domanda è comunque occasionale e limitata. E poi mettiamoci pure che è comodo avere un distributore che paga in anticipo, manda il mezzo di trasporto, carica e se ne va.
Eppure con questo approccio tante piccole e medie imprese non riusciranno mai a internazionalizzarsi davvero, ovvero a capire come la domanda si evolve nei mercati internazionali, quali prodotti sono più adatti a un determinato mercato, come si viene percepiti e quali strategie di marketing e di comunicazione adottare di conseguenza.
Internazionalizzazione significa innanzitutto una trasformazione della cultura aziendale, che vede il mondo come il suo mercato e chiede di avere al suo interno collaboratori con la medesima apertura.
Anche una piccola o media impresa può perseguire questo obiettivo. Basterebbe aprire delle sussidiarie solo nelle macroaree del mondo più forti o promettenti per la propria attività (Russia e Asia centrale, Nord Africa, Sud Est asiatico, Balcani, Peasi del Golfo Persico, Sud o Nord America, Cina e India) e continuare a seguire i mercati meno redditizi col vecchio e caro distributore locale. Così l'impresa piccola o media potrebbe davvero trasformarsi da realtà meramente esportatrice ad attore internazionale.
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