Cosa implica
vivere in un mondo twitterizzato?
Fino a un
decennio fa il media di massa televisione era la distrazione e lo sfogo delle
pulsioni dei meno colti. L’intellettuale non guardava la televisione, anzi,
millantava addirittura di non avere il televisore in casa.
Oggi invece
l’intellettuale al passo con i tempi è non solo sempre connesso ma cura anche
con costanza le sue interazioni su facebook e soprattutto su Twitter. Un
intellettuale che non è su Twitter è come un intellettuale che dieci anni fa non partecipava al dibattito pubblico dalle
colonne di quotidiani e riviste o attraverso le relazioni ai convegni o gli
incontri con gli studenti: ovvero irrilevante, pressoché inesistente.
Oggi devi
esserci su Twitter. E per esserci devi twittare con costanza e quando non hai contenuti
tuoi da diffondere devi ritwittare cose di altri, possibilmente sempre
interessanti o almeno curiose, capaci di generare traffico. Eppure, un recente report di hubspot
dimostra che molti di coloro che fanno retweet nemmeno leggono quello che vanno
a diffondere: lo fanno per simpatia, per intuito, per ansia di visibilità,
magari semplicemente perché scatta in automatico il ditoo indice sul
telefonino, senza pensarci. E non mi stupirei di scoprire che a fine giornata
pochi ricordano cosa hanno ritwittato, soprattutto tra coloro che sono
“ritwittatori” seriali.
Il cervello umano, potenzialmente è capace di
processare 400 miliardi di bits di informazione al secondo, si trova oggi al
centro di flussi di informazione di cui potrebbe percepire solo la scansione
senza comprenderne il valore.
Gli
intellettuali al contrario hanno sempre lavorato sulla lunga durata cognitiva,
sulla capacità, affinata in anni di studio, di sedimentare le informazioni e
ricavarne sapere. La differenza storica tra un intellettuale e un giornalista
risiedeva proprio in questa diversa velocità, che consentiva al primo di
concedersi il lusso della riflessione e della contestualizzazione colta
rispetto al secondo costretto a rincorrere il fatto bruto del momento.
Cosa succede se
anche coloro che hanno strumenti di analisi raffinati che si sviluppano in
tempi lunghi si fanno prendere dalla foga della visibilità del momento? Perché tanti presunti uomini di cultura non
colgono i limiti dei media sociali quando si tratta di elaborare e presentare
messaggi più complessi? Un mondo che si
racconta in 140 caratteri è un mondo frammentato, in cui anche la cultura
rischia di esserlo.Insomma, sta emergendo una nuova figura, l'intellettuale
twittarolo, uno che compulsivamente agita le dita sul suo tablet o telefonino,
ricercando il retweet, la citazione, l'accumulo di follower. Oramai sono aperte
disfide all'ultimo click: come ironizzavo nel precedente post, il blogger come
il giornalista di fama come l’intellettuale free lance (ovvero: un tanto al
chilo e parlo di tutto) sono oramai attentissimi a pesarsi non in base alla
qualità di quanto si scrive o dei contenuti che si sanno trovare e diffondere
ma in base al numero di like e di follower, parametri parziali, meri numeri dei
quali poco intuiamo le logiche e meno sappiamo cosa indicano (sull’argomento Stefano Besana ha scritto un ottimo
post). Dato che il
personal branding è tutto, e senza di esso non si viene chiamati a nessun
convegno, non si viene ingaggiati da nessun giornale e si vendono pochi libri,
l’intellettuale twittarolo cura costantemente la sua visibilità online, il che
implica distribuire tra i 5 e i 20 tweet al giorno. E in questa immensità di retweet s’annega il
pensiero di un cervello che fino a cinque anni fa sarebbe stato impegnato in erudite ricerche di archivio e nella stesura di testi dalla scrittura solida.
Perché poi la domanda è banale quanto inevitabile: ma l’intellettuale
twittarolo dove lo trova il tempo per leggere, sotto qualsiasi formato, qualche
libro?