In tempi di crisi
strutturale non solo dell’economia ma di un intero modello sociale non dovremmo
ripensare anche il ruolo della comunicazione?
Se si assume che
le discipline aziendali che negli ultimi decenni si sono più sviluppate e
diffuse nella società sono state la finanza e la comunicazione non è forse
giunto il momento di mettere in discussione anche le conseguenze negative di
certe pratiche di comunicazione?
Quali valori,
principi, orientamenti hanno messo in atto i processi di comunicazione in cui,
come fruitori passivi o come coscienti realizzatori, siamo stati coinvolti e
che abbiamo in diverse gradazioni accettato?
Grandi sforzi
sono stati messi in atto per definire lo statuto professionale e l’accreditamento
aziendale del comunicatore così come la
promozione della centralità strategica della disciplina nell’impresa. Cito al
riguardo per i non addetti il Bled Manifesto, gli Stockholm Accords o il
modello Building Belief recentemente presentato in Italia da Toni Muzi Falconi: una
doverosa riflessione sul come e sull’essere della professione. Eppure poco si è
studiato quanto la comunicazione agisca su quella che possiamo definire l’ideologia
della società, per quanto in ultima istanza il cambiamento delle idee è l’obiettivo
più ambizioso cui un comunicatore possa aspirare quanto mette mano a una
campagna.
Ecco perché, così
come per la finanza, dobbiamo chiederci: la comunicazione d’impresa (ed escludo
subito la pubblicità e il marketing tradizionale) ha creato valore duraturo per
la società in questi anni?
La comunicazione
di impresa è stata fortemente utilizzata per promuovere alcune trasformazioni
della percezione comune, diciamo pure del senso e dei principi sulla base dei
quali gli individui definiscono le loro scelte.
Passo in rassegna
alcune di queste trasformazioni:
- la promozione
di un processo di infantilizzazione degli adulti, spinti a ritenere
giustificati se non normali i processi di deresponsabilizzazione in molti ambidi dell'esistenza, alla ricerca
sempre e comunque dello divertimento, all'interno di un progressivo scivolamento dalla
dimensione del cittadino consapevole e informato verso il mero status di
consumatore onnivoro di prodotti ed esperienze “svaganti”
- l’aziendalizzazione
della società, del linguaggio e in particolare delle aspettative di una generazione
alla quale oggi l’economia privata offre prospettive incerte se non vero e
proprio sfruttamento
- la trasformazione
degli studenti superiori o universitari da discenti a meri clienti di prodotti
formativi
- l’esaltazione
di un individualismo asociale e dunque apolitico, per cui sisocializza solo
attraverso consumi condivisi “We are trapped in an individualistic consumer culture
in which the public goods that belong to us as citizens are not part of the
accounting” (Consumed, di Benjamin R. Barber)
Non intendo
stendere un elenco esaustivo, anzi qualche lettore di certo proporrà altre
trasformazioni e ambiti in cui la comunicazione di impresa ha avuto grande
peso. Quello che per ora mi preme è cercare di capire come è stato costruito un
sistema di idee, di persuasioni, insomma un senso comune che ha, almeno
implicitamente, sostenuto e giustificato comportamenti e scelte individuali
quanto collettive che hanno portato a mettere in crisi il compromesso sociale
su cui si sono rette molte società europee per sessant’anni.
E infine l’ultima
domanda: la comunicazione può aiutarci ad uscire dalla crisi?