Ogni epoca ha i
suoi slogan equivocati. “Bisogna assolutamente essere moderni”, dichiarava
Rimbaud, intendendo una discontinuità epocale e metafisica con i modelli di
pensiero e di prassi del passato. E giù invece torme di adulatori del mero
progresso tecnico, acritici esaltatori di una scienza illusoriamente
considerata neutra e illimitata.
Oggi “bisogna
essere assolutamente digitali” (Being digital, scriveva già nel 1995 Nicholas
Negroponte) e ancora di più bisogna essere capaci di essere “social”. Sì, di
sfuggita ci si è ricordati che gli esseri umani sono il frutto delle loro interazioni
sociali e la società Grubwithus usa il web per organizzare cene tra sconosciuti
che vogliono staccare gli occhi dai loro smartphones.
Ogni epoca,
insomma, ha gli equivoci che si merita. Quindi tutti oggi sui social media, con
la sommessa speranza di uscire poi da essi per vivere di nuovo nel mondo delle
relazioni sociali reali.
In questa fiera
degli equivoci non fanno eccezioni le imprese che vogliono essere “assolutamente
social”. Ma cosa si aspettano le imprese quando investono sui media sociali?
Il committente di
solito è un direttore della comunicazione o del marketing che pretende di
trattare l’investimento nelle social media relations come un qualsiasi
investimento pubblicitario. Deve dimostrare che, nell’arco di qualche trimestre
o a volte di poche settimane, quella cifra x ha prodotto quei quantificabili
risultati y, z e w. E di parametri numerici al riguardo oggi proprio non ne
mancano: numeri e infografiche sono fornite dalla società di consulenza in
quantità strabordanti per intimorire anche il consiglio direttivo più tignoso.
Quindi alla fine tutti soddisfatti: siamo stati visti tot volte su internet, siamo
stati innovativi perché social (o viceversa, così è se vi pare...), magari l’agenzia
di comunicazione ha ricevuto qualche premio per quella campagna grazie all’amico
in giuria. Budget incrementato per l’anno successivo, incarico rinnovato.
Ma possiamo
valutare l’effetto della presenza sui social media sulla base di principi nati
in campo pubblicitario come quelli di costo/contatto, visibilità, notorietà,
persuasione o cambiamenti del comportamento d’acquisto all’interno di un
periodo definito di tempo?
Ritengo al
contrario che la comunicazione sui social media debba essere innanzitutto
relazionale (dopotutto gli americani da anni parlano di conversation), per cui
dimentica di un ritorno economico immediato e focalizzata invece ad accrescere
la reputazione e la credibilità dell’impresa e a rafforzare la fiducia e lo
scambio di informazioni tra essa e il suo pubblico.
Se si confrontano
i termini usati nelle ultime 2 frasi si noterà che tra l’approccio
pubblicitario e quello relazionale individuo differenze semantiche alquanto
profonde: alla notorietà si potrebbe opporre la reputazione; alla persuasione
la fiducia; al comportamento d’acquisto immediato lo scambio di informazioni
(conversazione) prolungato nel tempo.
La filosofia con
la quale tutti i direttori della comunicazione dovrebbero avvicinarsi ai media sociali dovrebbe essere più simile
alle attività di relazione e accreditamento che sviluppano negli anni i
professionisti, i quali investono tutti i giorni in relazioni personali, in
credibilità, in riconoscimento pubblico coscienti che solo attraverso azioni
progressive e cumulative, confermate dai risultati conseguiti quando vengono
ingaggiati, possono costruire quella reputazione professionale che garantirà
loro introiti stabili. Evidente che quest’approccio non può definire metriche e
parametri univoci, così come un professionista non sa mai se quel pranzo o
quell’articolo porteranno dei nuovi ingaggi e quando. Ma nessuno rinuncerebbe a
sviluppare contatti potenzialmente utili per la carriera o per la professione
solo perché non si ha certezza di un ritorno a breve.
La comunicazione
digitale sociale, sintetica, multimediale, interattiva, “real time” richiede in
realtà anni per produrre risultati stabili e duraturi. Riusciranno i manager
della comunicazione e del marketing a non farsi irretire da chi promette
risultati sfavillanti e immediati grazie ai media sociali?
Gli equivoci,
dopotutto, sono spesso frutto di scorciatoie mentali.
2 commenti:
Mi piace questo pezzo ed hai perfettamente ragione a dire che le aziende usano i social media come se fossero dei media tradizionali dove poter farsi pubblicità...i social media, sono social appunto e dovrebbero servire per sviluppare relazioni sociali non relazioni di marketing.
Buon lavoro. Ciao Chiara
Forse le imprese che rischiano maggiormente di sbagliare utilizzando i media sociali sono quelle mass oriented, basate su logiche diverse rispetto ai principi della rete di cui tu parli nel post. Mi viene in mente la recente operazione lanciata su Twitter dal colosso Mc Donald's. I consumatori erano stati invitati a raccontare le loro Mc Stories e così è stato, con l'unico grande inconveniente della raccolta di feedback negativi e condivisi dai più. In questo caso, più che di equivoco, si tratta di un errore madornale per l'azienda, etichettato dall'opinione pubblica come "Mc Fail". Per completare il quadro disastroso, poi, hanno deciso di chiudere la pagina piuttosto che rispondere prontamente alle persone e cercare di redimere l'immagine dell'azienda.
Prima di utilizzare i media sociali, certi colossi dovrebbero capirne il vero senso e, anzitutto, accettare il fatto che nel web 2.0 le persone hanno potere di parola e sono loro a dettare le regole del gioco. Ciò significa che, prima di utilizzare i media sociali come strumento di marketing e comunicazione, le imprese dovrebbero essere coscienti di sè e della propria equity. Il processo di costruzione e mantenimento della fiducia è un'operazione che come tu dici richiede tempo e,aggiungo, legittimazione nel farlo. Ma per il popolo della rete, che queste cose le sa e va ben oltre, basta un solo sgarro, come il risultare incoerenti, a far crollare tutto. Prevedo uno scenario radioso per quello che sarà il social marketing del futuro. Ma che gran fortuna è la net democracy...
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