domenica 10 aprile 2011

Precari per sempre (?)

Come e quando definire qualcuno un precario se la sua diventa una condizione di massa? E cosa significa protestare contro la precarietà in una società precaria? Oltre all’indubbio successo di comunicazione non ho capito chi erano gli interlocutori delle manifestazioni di ieri e se esse erano di natura sindacale (vogliamo più soldi e più tutele per i nostri lavori) o di tipo politico.

Le organizzazioni sindacali classiche non riescono a far presa sulla molteplicità di un fenomeno che da poco iniziano a comprendere nelle sue dimensioni, i partiti politici italiani sono poco più che cordate di potere e sottopotere costruite attorno a un leader mediatico, il Parlamento è impegnato a legiferare per proteggere Berlusconi dalle sue stesse sconsideratezze: la solitudine in cui i giovani sono relegati che veniva ieri denunciata è l’altra faccia del vuoto di una società senza idee per il futuro.

A mio avviso la questione centrale è dunque quale forma di società e quali modalità di lavoro, soprattutto intellettuale, vogliamo nel nostro futuro.

Il 6 marzo scorso Paul Krugman si è chiesto si vi è ancora una relazione diretta tra titolo di studio e reddito. Si tratta appunto del sogno spezzato di tanta classe media anche italiana, che ha fatto sacrifici per mandare i figli all’università per poi vederli sottoccupati e dipendenti dall’aiuto familiare anche oltre i 30 anni. Krugman evidenzia che da circa un ventennio negli Stati Uniti diminuiscono i lavori a reddito medio e crescono significativamente le occupazioni a reddito basso o molto alto. Per semplificare si può dire che un computer riesce a sostituire le procedure routinarie d’ufficio ma non a fare da badante o il cardiochirurgo.

Mentre Daniel Indiviglio dalle colonne della rivista Atlantic ha argomentato sbrigativamente che l’università non è per tutti, che non vi è bisogno di laurearsi in criminologia per poi fare i poliziotti e che mentre si spendono soldi studiando si perdono tante profittevoli occasioni di lavoro e di reddito, argomentazioni riprese in Italia da Marina Valensise (con il tipico gusto Barnesiano per la semplificazione brutale che ha il gruppo de Il Foglio), la questione del riordino del sistema formativo dei paesi occidentali non può essere posta solo come un costo da ridurre per lo Stato e le famiglie. Krugman evidenzia dal canto suo che vi è il dramma collettivo della perdita del potere d’acquisto dei lavoratori medi e bassi e aggiunge che bisogna garantire diritti universali come quello all’assistenza sanitaria.

Mi permetto di aggiungere che vi è anche un altro problema: l’eccesso di offerta di lavoratori della conoscenza rispetto a quanto richiede il mercato. La precarietà in certi settori è almeno in parte conseguenza di questo squilibrio. A questo dobbiamo aggiungere una scarsa consapevolezza da parte di tanti giovani che pur di entrare nei settori lavorativi cui aspirano son disposti ad accettare qualsiasi negazione dei diritti di base di ogni lavoratore. Si tratta di veri e propri lumpen-cognitari, giovani che si perdono nell’illusione che fare per benino il compitino assegnato consentirà loro di trovare un vero lavoro e con le loro scelte finiscono per azzerare la capacità negoziale e la dignità professionale di intere categorie, soprattutto nei territori estesi e dagli instabili confini della comunicazione.

D’altra parte non mi sembra che il conformismo con cui schiere di giovani hanno accettato stage a ripetizione a pochi o zero euro li abbia salvati dal precariato e da condizioni di vita che sono di povertà relativa (che sfocerebbe in povertà assoluta senza l’aiuto della famiglia). Ma il lumpen cognitario vede con supponente diffidenza le esperienze di autorganizzazione di quanti sono consapevoli della loro condizione lavorativa. E quando dopo qualche anno questi si accorge che non potrà mai andare oltre i 1000 euro mensili a termine vi sono già schiere di stagisti pronti e capaci a fare le sue mansioni praticamente gratis.

Ma allora che fare? Non si può di certo immaginare che decine di migliaia di giovani, spesso fortemente spoliticizzati, possano prendere coscienza tutti insieme e iniziare ad avanzare domani le loro giuste rivendicazioni. Dunque non è con una sindacalizzazione di massa che si affronta il problema.

Il problema a mio avviso può essere affrontato facendo passare in tutti gli strati sociali l’idea che la conoscenza è un bene comune come l’acqua o l’aria. E come bene comune ogni Stato e ogni organizzazione sovranazionale deve mettere in campo azioni e iniziative per proteggerla, accrescerla e distribuirla. Se la Unione Europea avesse voluto diventare “la più competitiva e dinamica economia della conoscenza entro il 2010” come recitava nel 2000 la strategia di Lisbona avrebbe dovuto escludere dal computo del deficit degli Stati membri gli investimenti e le spese in ricerca, formazione ed educazione.

Così come Keynes ha dimostrato che il mercato da solo non raggiunge mai la piena occupazione, una società basata sulla conoscenza deve essere consapevole che il mercato non richiederà mai conoscenza nei settori e nelle quantità (per fortuna strabordanti) in cui essa viene oggi prodotta e per questo devono intervenire gli Stati e gli organismi sovranazionali per promuovere progetti e iniziative capaci di mettere a valore le intelligenze oggi precarie. In questo modo si drenerà la domanda in determinati settori incrementando il potere negoziale di chi è più qualificato: laureate in archeologia o filologia classica potranno finalmente sviluppare progetti di ricerca consoni ai loro studi e non donarsi alle agenzie di comunicazione in stage gratuiti senza futuro.

Se nei tempi passati l’istruzione significava promozione dei cittadini i quali al contempo investivano su se stessi e sulla propria capacità di generare reddito, oggi il livello di conoscenza diffusa è il valore latente di ogni ricchezza che può generare una società.

Si può lasciare decidere il futuro di questo valore ai calcoli di un commercialista di Sondrio?

4 commenti:

Nicola e Gabriella ha detto...

Ritengo che sia completamente giusta un selezione pre-formativa a patto che questa avvenga secondo criteri davvero attitudinali e non arbitrari e deliberati da chicchessia risieda al Ministero dell'istruzione.
Penso che l' istruzione sia un diritto ubiquitario ma funzionale alle risorse di un dato popolo e Stato, credo che sia necessaria una selezione iniziativa per gli Studi bensì credo che sia necessaria una valorizzazione
dei lavori artiginali e terziarii.
Nicola e Gabriella

rba ha detto...

Voglio poter votare qualcuno che abbia una capacità di visione a medio-lungo termine come questa. Ne ho diritto in nome delle tasse che pago ogni mese e degli anni di vita che sto perdendo nel limbo del precariato.

Anna Maria Carbone ha detto...

Mi lascia perplessa il tentativo di risolvere problemi nuovi usando metodi vecchi.
Mi sembra anacronistico continuare a chiedere allo Stato, e quindi alla politica, attenzione e capacità di assumersi le sorti del popolo.
E’ fin troppo evidente che i nostri politici sono in tutt’altre faccende affaccendati, e guai a disturbarli.
Mi chiedo allora cosa manca a questa nostra conoscenza per farsi proposta. Perché ci aspettiamo che qualcun altro trovi soluzioni che noi non siamo nemmeno capaci di pensare? A cosa serve tutto questo sapere se poi non ha in sé la capacità di farsi reale, concreto, tangibile? Perché il “sapere” non diventa “saper fare” passando per il “saper pensare”?
Recriminare e lamentarsi ha poco senso, specialmente quando si sa che dall’altra parte non c’è nessuno ad ascoltare.
Non è meglio mandar giù il boccone amaro, rendersi conto che i tempi del “posto fisso, casa di proprietà e maglia di lana” ce li abbiamo alle spalle, che lo Stato, ammesso che ne abbia l’intenzione, non è più in grado, per diverse incapacità, di farsi carico di tutto e fare qualche proposta, magari nuova?

Biagio Carrano ha detto...

Cara Anna Maria, non sono d'accordo.
Il mio assunto che nell'età della conoscenza la conoscenza è appunto un bene comune che deve essere tutelato da istanze superiori a quelle individuali. Non si tratta dello Stato-mamma ma della necessità di garantire produzione, diffusione e fruizione di un bene che è considerato aessenziale alla stregua di acqua o aria.
Se quest'assunto è acquisito allora bisogna anche mettere in campo strategie per utilizzare al meglio le risorse intellettuali presenti nella società. A tal proposito mi viene in mente un testo vecchio oramai di una ventina di anni di Giorgio Lunghini dal titolo "L'età dello spreco" http://www.bollatiboringhieri.it/scheda.php?codice=9788833908922) in cui si evidenziava (in una prospettiva un po' soprassata) la contraddizione tra disoccupazione e bisogni sociali (e io aggiungo con forza "bisogni cognitivi") e la necessità di creare una correlazione a somma positiva tra questi due fattori strutturali di ogni società moderna.
Io dico solo che bisogna indirizzare verso fruizioni utili questo enorme spreco o sottovalutazione dell'intelligenza diffusa di cuioggi soffriamo gravemente in Italia.