Molti pensano che
il web apra possibilità pressoché infinite di approfondimento dei contenuti e di allargamento dei propri orizzonti mentali. Il successo di
Kony2012 dimostra invece che quanto più un messaggio è raccontato attraverso
schemi tradizionali se non retrivi, quanto più si fa affidamento su desideri
ingenui e regressivi, quanto più si sviluppa una narrativa enfatica e
banalizzante maggiori saranno le possibilità di successo in rete.
Un successo
trainato dai giovani tra i 19 e i 29 anni attraverso facebook e twitter per oltre
100 milioni di visualizzazioni in 16 giorni tra You Tube (oltre 83 milioni
oggi) e Vimeo (oltre 17 milioni).
Molti blogger hanno evidenziato la parzialità dei messaggi del video, in meno hanno parlato delle
leve emotive che il video prova a muovere. “Humanity’s greatest desire is to belong
and connect” (immagini di persone che si abbracciano, minuto 00,35) si dichiara
apoditticamente: il video dà per scontato che oggi le relazioni e le appartenenze
avvengano innanzitutto e per lo più attraverso i media sociali, i quali vengono
interpretati prima come un grande connettore e poi raccontati come un “intensificatore”
della vita reale. (Pensate solo al giudizio che avreste dato di uno che vent’anni
fa riteneva di vivere più intensamente passando gran parte del suo tempo davanti
alla tv ) La Timeline di Facebook viene così utilizzata per rappresentare il
vissuto di un incontro lungo gli anni (minuto 03.58). E in questa riduzione
delle esperienze di vita in esperienze di media sociali che avviene la
regressione infantile del pubblico, portato a vedersi rappresentato da Gavin, il figlio cinquenne del regista. Gavin è il protagonista
ma anche la proiezione dei sensi di colpa e della reazione emotiva che il video
vuole suscitare nei suoi utenti.
Il video prosegue
tra momenti didascalici delle attività di lobby di Invisible Children e
interviste a giudici che sembrano più esaltare le “new rules” (quali poi?) del
mondo iperconnesso che spiegare il ruolo e gli ambiti del tribunale penale
internazionale.
Superficialità,
enfasi, manipolazioni emotive, esaltazione acritica delle capacità mobilitanti
di internet (in qualche altro post ho definito questa mentalità come Cip): il
video di Invisible Children tocca tutte le corde tipiche delle campagne di
comunicazione digitale in cui la call to action si riduce, al meglio, in un
forward, in un Like o nel lasciare la propria email.
Ma un video di 30
minuti che viene visto in 16 giorni da oltre 100 milioni di persone suscita
anche qualche altro dubbio. Possibile che per ben 30 minuti almeno un terzo,
diciamo 30 milioni di utenti unici,
abbiano visto l’intero video? Se si studia la graduatoria dei video su YouTube più cliccati di sempre ci si trova di fronte a clip musicali che non superano i 5
minuti e 8 secondi con l’eccezione di un video buffo di 56 secondi. Possibile
che l’attenzione frammentata degli utenti del web si sia solidificata per 30
minuti su un video con una sintassi visiva e logica non sempre fluida? Quanti
utenti hanno visto i primi minuti ma non ricordano quali sono le altre azioni
della campagna raccontate al termine del video? E quanti di questi 100 milioni
di visualizzazioni hanno poi comprato l’action kit o versato qualche dollaro
all’associazione? Quanti utenti saprebbero citare la scadenza che ci si dà nel
video per realizzare una grande mobilitazioen collettiva (il 20 aprile 2012)? Quante visualizzazioni sono solo un click su un link ad una pagina abbandonata dopo pochi secondi? Quanti leggono fino in fondo un testo di una certa complessità segnalato sui media sociali?
Sono domande che riguardano non un singolo caso ma l'utilizzo stesso e i limiti dei media sociali come strumenti di comunicazione.
Non discuto il
grande successo di immagine che ha ottenuto Invisible Children, organizzazione
benefica da sempre più impegnata sul lato della comunicazione che su quello
dell’azione. Semmai mi preoccupa vedere confermato il sospetto che gli utenti
del web possono venire condizionati agevolmente, quanto e forse più il vechio
pubblico televisivo.