Il blog Il corpo delle donne ha riproposto con forza la questione dello sfruttamento mediatico delle donne, anche grazie alle qualità del bel documentario da esso realizzato. Da un punto di vista morale sono più che d’accordo con le tematiche e le denunce che porta avanti Lorella Zanardo. Da un punto di vista sociologico e di analisi delle idee molto meno. E mi spiego.
Il corpo della donna rappresentato nella televisione italiana, specialmente quella berlusconiana, assume più che altro i connotati di un simulacro (approfondisci qui), nell’accezione di Jean Baudrillard. Lo spettatore maschio, l’essere di sesso maschile che guarda quel corpo, che desidera toccare quelle chiappe o quei seni, che rimane sintonizzato su quel canale in preda a una eccitazione inane e sterile, è un maschio regredito allo stato pre adolescenziale. Egli è l’imberbe che si diverte a ripetere le prime parole sconce che ha conosciuto, quello che si bea di intravedere i vicini mentre fanno l’amore con la finestra aperta, di spiare la sorella grande dal buco della serratura mentre si cambia, è lo sguardo che prova a inoltrarsi oltre i confini della gonna senza però saper dialogare con la persona che la indossa.
Questi maschi sono vittime della seduzione di corpi irrangiungibili, troppo perfetti per non vivere poi una qualche delusione l'avvicinarsi a un corpo reale. Una seduzione gestita dagli addetti ai palinsesti e dagli autori dei programmi, non dalle donne stesse come strumento di legittimo potere. Per questo il corpo della donna in tv, anche quando è pressoché nudo, non viene utilizzato per rimandare a un piacere carnale, il quale, anche nelle sue forme più epidermiche, richiede all’uomo un minimo di sforzo di relazione con la donna. Peggio, il corpo delle donne viene usato per creare una eccitazione sterile, funzionale solo a paralizzare le capacità di scelta (di cambio canale) del telespettatore.
Intendiamoci, si tratta di una deprivazione delle qualità del corpo femminile ancora più grave, speculare alla deprivazione relazionale e sensoriale che innesta nel maschio.
Non vedo pertanto la donna sottomessa soltanto alle tradizionali logiche reificanti del dominio maschile. Peggio: la reificazione del corpo femminile è funzionale al controllo, all’assoggettamento di una fetta significativa di maschi telespettatori, ovvero di cittadini, ovvero di elettori.
In Miti d'oggi Roland Barthes ci ha fatto capire cosa significassero per il senso comune il volto della Garbo, l'iconografia dell'Abbè Pierre, il matrimonio della Regina Elisabetta. Era il tempo (gli anni Cinquanta) dei persuasori occulti e la televisione, la cui debordante mitologia ha fagocitato poi tutte le altre (il cinema, il teatro, la musica), appena lumeggiava nelle prime case, ancora elettrodomestico e ben lontana dal diventare il mondo in cui tanti vivono oggi. Ma attraversiamo cinquant'anni e veniamo a due mitologie recenti: Jade Goody e Susan Boyle. L'una senza alcuna qualità, l'altra voce talentuosa. L'una facile al sesso, l'altra pressoché improponibile. Una con un linguaggio sboccato e volgare, l'altra timida e volontaria in chiesa. Due dimensioni distanti, eppure esse non sono accomunate solo dal successo televisivo. L'isteria collettiva che ha accompagnato la malattia e la morte della Goody non è solo frutto di un genio delle pr come Max Clifford. La diffusione planetaria di un'unica, di certo significativa, performance di Susan Boyle non è solo merito dell'abilità a intuire e a indirizzare i gusti musicali di Simon Cowell. Domandiamoci semmai: cosa vede il pubblico, noi, in queste due storie? Quale è la narrazione e il messaggio che, come tutte le mitologie, ci acquieta e ci fa accettare meglio la realtà di tutti i giorni? Lungi dall'essere solo pr e creatori di format televisivi, Max Clifford e Simon Cowell sono due moderni mitografi. Essi identificano un bisogno, un'attesa, una pulsione, una ricerca di senso della società o del pubblico televisivo (si possono davvero distinguere i due termini?) e li elaborano in un personaggio in cui vi possa essere identificazione e distacco al tempo stesso. Quel personaggio da reality o da show è di certo simile a me spettatore per certi aspetti, ma anche abbastanza dissimile da non riconoscermi del tutto in esso. In una società classista come quella inglese una ragazza ignorante e sguaiata può di certo rappresentare il 95% della popolazione che non entrerà mai nei salotti buoni e nelle scuole di eccellenza, ma il personaggio è anche abbastanza estremo da lasciare alle persone la possibilità di dire “io non sono messa tanto male come lei”. Il riconoscimento tardivo delle qualità vocali di una ridicola signora obesa, che per il suo aspetto fisico è finita per essere uno scarto della società (disoccupata, e per ciò volontaria in chiesa), può rappresentare una speranza e una giustificazione ad andare avanti per i tanti espulsi dal sistema sociale e produttivo, ma anche una pietra di paragone per rinfrancarsi: “io non sono proprio così, un lavoretto ce l'ho, e anche un marito”. Risultà così più agevole accettare la società, e anche se stessi. Certo, i personaggi di queste nuove mitologie durano poco, poiché i tempi dei media richiedono un continuo ricambio di narrazioni. Ma non importa. In questo nuovo pantheon postmoderno, dove gli dei non calano più dai cieli per soccorrere le vicende umane ma vengono selezionati tra le persone di tutti i giorni e innalzati al nuovo rango dagli esperti di immagine, quello che conta non è l'eternità ma la possibilità per tutti di poterci entrare un giorno e potervi restare per un po'. La redenzione dai propri fallimenti non verrà attraverso la fede o il duro lavoro ma attraverso uno show televisivo.
Ogni anno nel mondo si infettano di influenza tra i 300 milioni e il miliardo di persone. Nella sola Europa muoiono tra le 50 mila e le 220 mila persone. La tradizionale influenza di stagione, cui siamo quasi affezionati come l'ora legale, l'inizio del campionato di calcio o la riapertura delle scuole, di volta in volta definita confidenzialmente dai media con i termini anansiogeni di "australiana", "cinese", "coreana" o con altre denominazioni esotiche, uccide ogni anno in Italia 8500 persone, ovvero oltre 700 al mese. Una piccola ecatombe che passa inosservata, se la compariamo alla rilevanza attribuita costantemente alle vittime della strada che nel 2007 sono state 5131, due terzi delle vittime influenzali.
Ricordate l'influenza aviaria? La catastrofica "aviaria" scatenò una paranoia mediatica mondiale. Al riguardo ancora ricordo i servizi degli inviati del Tg1, mandati alle foci rumene del Danubio ad aspettare gli uccelli migratori dall'Est, ritenuti gli untori volanti della terribile malattia: cosa aspettavano di vedere questi celebri giornalisti? Folaghe e gabbiani arrivare con striscioni e cartelloni con su scritto "siamo in milioni e tutti infetti, arrendetevi"? Ebbene le vittime causate dai volatili-Attila sono stati dal 2003 in avanti 257 in tutto il mondo. Ne ammazza di più il panico, si potrebbe sarcasticamente affermare. Certamente una casualità voleva che il medicinale efficace contro l'aviaria fosse il Tamiflu, commercializzato da Roche ma sviluppato dalla californiana Gilead Sciences dove dal 1988 al 2001 era stato membro del consiglio di amministrazione il segretario di Stato dell'amministrazione Bush junior Donald Rumsfeld, dal 1997 in avanti addirittura amministratore delegato della società biotech. Come ricorda The Indipendent, Rumsfeld vendette parte delle azioni in suo possesso nel pieno della psicosi mondiale con un guadagno netto di 5 milioni di dollari.
L'attuale, inquietante influenza "suina" (come se poi quasi tutte le influenze non venissero incubate dai suini) ora con il nome più scientifico di A/H1N1, (un codice inquietà di più e spinge le persone a prendere più sul serio la cosa, che poi tutte le influenze abbiano un codice tipo H(numero)N(numero) risulta per ora trascurabile) nasce, come sappiamo tutti, in Messico. Ad oggi questa devastante epidemia ha fatto 16 morti e 427 infettati su una popolazione messicana di quasi 109 milioni di abitanti; la normale influenza nel 2007 ha sottratto nella sola Città del Messico 1742 vite, circa 145 al mese. Ma il Messico è un paese fortunato perché proprio il 9 marzo scorso Sanofi-Aventis, nel corso della visita del presidente Sarkozy, ha annunciato un investimento da 100 milioni di euro nel paese nordamericano per la realizzazione di un impianto di produzione di vaccini antiinfluenzali. Il comunicato ufficiale dichiara: “La nuova struttura sarà progettata per convertirsi al vaccino pandemico qualora l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) dichiari una pandemia influenzale umana e ne identifichi il ceppo.”
L'emergenza influenza in Messico è praticamente endemica, con focolai naturali costantemente attivi e non a caso la casa farmaceutica francese ha scelto il paese per i suoi investimenti. Quindi non si tratta di negare il fenomeno e la capacità dei virus influenzali di ricombinarsi costantemente, creando di continuo nuovi ceppi cui la ricerca farmaceutica deve far fronte.
Si tratta di capire il ruolo dei media nell'amplificare o mettere in sordina certe emergenze sanitarie. E quanto i consulenti di comunicazione delle case farmaceutiche siano coinvolti in questi fenomeni.
Possiamo indicare quattro strategie comunicazionali che trasformano un'emergenza sanitaria locale e limitata in una psicosi mediatica globale:
1. La descrizione del fenomeno: dire influenza A/H1N1 è molto più corretto che dire influenza suina; dire peste suina invece che influenza suina non solo è scorretto da un punto di vista lessicale e medico, ma si tratta, come dice Daniele Luttazzi, di “giornalismo deontologicamente modificato”;
2. Paragoni o similitudini: per un virus che finora ha ucciso meno di 20 persone si è portato spessisimo l'esempio della Spagnola che nel biennio 1918-19 uccise 40 milioni di individui in un mondo molto meno popolato dell'attuale. Ora si tratta dell'incapacità dei giornalisti a rendersi conto di dimensioni radicalmente diverse o di un'imbeccata di un ufficio stampa?;
3. La distribuzione geografica, che spinge a ricercare ansiosamente nuovi casi distanti l'uno dall'altro, creando un effetto insicurezza ("la distanza non vi tiene al sicuro"). Il “primo caso ad Hong Kong”, il “primo caso in Europa”, il “primo caso in Italia” sono le ansiogene aperture ricorrenti dei telegionali di questi giorni;
4. Gli infettati celebri. La cantante inglese emergente ricoverata a causa dell'A/H1N1, Madonna forse anche, addirittura un collaboratore di Obama. Tutti fatti (e si scoprirà probabilmente che erano pseudofatti) altamente notiziabili, capaci di tenere la storia in alto nelle news. Chi lavora nel settore sente puzza di pr lontano un anno luce.
Ultim'ora: anche il sottosegretario alla Salute Ferruccio Fazio afferma: “Il virus dell'influenza 'A' e' molto blando, con una sintomatologia addirittura piu' leggera di quella della normale influenza”. Forse il messaggio per giornalisti e pr è quello di darsi una calmata?
Vi sono forse al momento troppe emergenze, nazionali e globali, per pompare anche questa. Mettere troppa paura alle persone fa paura anche agli addetti alla paura.
Se ti interessa coinvolgere Biagio in corsi di formazione, conferenze, seminari, approfondimenti sui temi di questo blog manda un' email a: biagio.carrano@gmail.com