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mercoledì 1 febbraio 2017
sabato 24 gennaio 2015
Lo Scuru: un poema interiore
Nella sua analisi di “Storia
dell’occhio” di Georges Bataille, Roland Barthes contrappone poema e romanzo:
all’”immaginazione timida” del secondo, “che non osa dichiararsi se non sotto
cauzione del reale”, il critico francese contrappone la potenza del poema, che
dice “ciò che non potrebbe accadere in nessun caso, salvo che nella regione
tenebrosa e ardente dei fantasmi, regione che, proprio per questo, esso è il
solo a poter designare, (...) esplorazione esatta e completa di elementi
virtuali”.
Leggere dunque Lo Scuru come un
romanzo e non come un poema porta a incomprensioni gravi, che pure sono apparse
in queste prime settimane dalla sua uscita. Valutare un testo, una scrittura, e
volerlo per forza incasellare in quello che secondo un critico dovrebbe essere
un romanzo (il cui successo nei secoli sta proprio nella sua natura multiforme)
è meno un errore che un indizio di scarsa fiducia nella letteratura.
Poema interiore dunque, che evoca
un mondo ctonio e la lotta di Razziddu Buscemi per affrancarsi da esso, pur
essendone parte. Racconto di quel fondo magico che la religiosità barocca e
controriformistica meridionale ha protetto dalla razionalizzazione nordica del
sentimento religioso attuata dal Protestantesimo, la quale invece guardava
verso l’alto per scrutare un dio tanto distante da risultare al fine inaccessibile.
Il cattolicesimo mediterraneo è invece assediato dalle infinite manifestazioni
di un abisso ancestrale, per difendersi dal quale ha prodotto per secoli
muraglie di santini, cortine di devozioni, raccolte di effigi di antenati e di
mostri, amuleti contro le potenze oscure che abitano l’anima del mondo e delle
persone.
Il Signore dei Puci di Butera,
con cui il giovane Razziddu ingaggia una lotta letale, è la statua di un Cristo
trasformato in un mostro dalle energie ancestrali che attrae e diffonde. Solo
il cattolicesimo barocco ha saputo intuire la coessenza in fenomeni religiosi
arcaici di potenze al contempo salvifiche e infernali, e renderle manifeste in
processioni oscure come quelle della Settimana Santa, quando il sacro ritorna
buio e indistinguibile, inquietante e disperante. Una messinscena oscura, dove
le statue sono illuminate da baluginii fiochi e diventano specchi mobili e
allusivi di un orrore indicibile e senza fine, una oscurità tuttoavvolgente,
dimensione priva di temporalità perché antecedente al tempo.
L’analessi narrativa introduce a
una biografia antespettiva dell’autore verso una fuga vageggiata nei territori
della propria ascendenza letteraria ideale, di una lotta interiore di Razziddu
mai risolta nemmeno in punto di morte. È il legame salvifico con l’amata Rosa,
la cui morte riapre l’abisso interiore del protagonista ormai anziano cui riemergono
le antiche visioni, che lo spinge a proiettarsi con la fuga nella modernità
nordamericana fondata sulla razionalità giuridica. Una razionalità agognata dal
giovane Razziddu, lui “creatura di zolfo” per bocca della nonna, come soluzione
e pacificazione dei conflitti che lo circondano, eppure dall’esito vano: “Così
il ragazzo (...) decise di franare col tempo, osservare, e ancora frenare,
tuculiare la macchina di legno e poi spicchiare la fisica provando a risorgere
in un’altra epoca o secolo in cui la superstizione sarebbe stata debellata da
Butera e un’emulsione di lucidità purissima, di giubilo, avrebbe ricreato i
rapporti tra i paesano secondo una formula matematica” (pag.90); “ogni oggetto,
dentro Butera, era dunque una particellare definizione del fallimento di
un’evoluzione moderna” (pag.88).
L’analessi consente il racconto
di un universo metamorfico dove la maga Minica invita Razziddu a non uccidere (“U
cutieddu. Scappa. Non farlo”, pag. 44) e settanta pagine dopo si capirà che si
tratta di una preghiera a non uccidere il suo doppio Nitto. Universo
metamorfico prodotto altresì da una lingua che non è tocco di colore, ma è
potenza espressiva di una personalità in fieri sospesa tra instintualità e
razionalizzazione, tra fedeltà a terra e famiglia e necessario e inevitabile
tradimento, tra urgenza espressiva e ordine sintattico. Dunque una lingua non
folcloristica, certo di difficile comprensione, ma che traduce il magma non
stabilizzato di un racconto fatto da forze violente, una lingua di cui seguire
i suoni duri, estranei, come allusione di un mondo non ancora toccato da un
ordine razionale della parola.
Una lingua in cui termini e
costrutti in siciliano stretto rappresentano fratture della superficie
linguistica tradizionale, della razionalità confortante ordinaria, geyser da
dove far fuoriuscire la violenza di un conflitto interiore e e le pulsioni di
un mondo arcaico, potente e spietato. Con
la sua scrittura multiforme per linguaggi, registri e ascendenze letterarie, Orazio
Labbate non si limita a narrare una storia, ma scava un fondo rimosso, raschia
il banale dai significanti più adusati, piccona la linearità rassicurante di
tanti romanzetti d’esordio.
Ecco, l’esordio. Poco ci si
interroga su cosa spinga una persona a rompere la timorosità e a dire, e a dire
in pubblico. Per me emulazione ed esplorazione sono le due dimensioni che sommuovono
il vero talento. Se Razziddu pescatore è un fratello minore di Suttree di
Cormac MrCarthy (evidenzio la passeggiata dopo il mercato delle pagine 65-66 e il
deliquio delle pagine 30-31), la lingua che ha plasmato Orazio Labbate è
strumento di esplorazione interiore e sociale, ardua perché il fondo che
intende evocare precede la sintassi e il lessico che riordinano e nascondono
gran parte del nostro io.
Lo Scuru è lotta,
entusiasmo, passione, inquietudine, ricerca, fuga, delirio. Ma soprattutto ambizione
di fare letteratura e di dire tramite essa una parola originale sul mondo e
sull’esistenza.
martedì 1 ottobre 2013
Il "dagli all'untore", in salsa digitale
C’è un espressione
napoletana alquanto icastica e brutale: “fa' 'o gallo ‘ncoppa ‘a munnezza”. In
questo i consulenti e i presunti esperti (come chi scrive, ça va sans dire) riescono
sempre benissimo, sempre bravissimi a maramaldeggiare, in maniera ipocritamente
cortese e con proposte di una banalità sconfortante (“ripartite dalla vostra storia”), sugli errori dei loro colleghi. Ma non intendo parlare di
deontologia, non temete.
Semmai mi domando
perché ancora tutti parlano di internet ma pochi stanno cercando di capire
quali sono le dinamiche di comunicazione e come noi stessi ci trasformiamo
quando usiamo i media sociali.
Troppi hanno
accomunato Barilla e Enel solo perché oggetto, pressoché in contemporanea, di
iniziative di protesta sui media sociali, mentre si tratta di situazioni
distantissime. L’azienda elettrica pianifica con la Saatchi&Saatchi una
campagna alquanto minacciosa sin dal nome #guerrieri, provando a manipolare la
mediasfera italiana attraverso la piattaforma di analisi dei consumi ZZUB. L’imprenditore
a capo della multinazionale alimentare esprime con improntitudine la sua idea,
alquanto retriva ma legittima, sulla famiglia. Nel caso di Enel il management
ha dimostrato di non aver contezza di come viene percepita dai suoi utenti (almeno da quelli più attivi online e nella società) l’azienda di cui guida la
comunicazione: semplicemente Enel non sa dove se stessa si trovi nella
rete. Nel caso di Barilla internet è
stato usato per promuovere una protesta a seguito di un classico, seppur grave,
incidente di comunicazione con un media tradizionale dell’amministratore
delegato (e un certo giornalismo vive da sempre di interviste rubate e
manipolate).
Da una parte
abbiamo una creativa protesta nazionale che disintegra le ambizioni sbagliate di
una campagna di comunicazione, dall’altra una gregaria protesta internazionale che
attacca il prodotto stesso nel suo diritto a stare sul mercato. Fin qui, in
estrema sintesi, le differenze di base dei due casi. Ma credo che qualcosa li
accomuni.
Internet non è
solo il luogo della conoscenza e della conversazione ma anche il luogo della
protesta e del conformismo, e protesta e conformismo a volte possono essere
sinonimi. E invece ancora siamo tutti condizionati da una retorica che ha
presentato internet come un luogo di libertà e di liberazione, senza evidenziare
che anche in un ambiente alquanto vario e abilitante come internet noi
rimaniamo sempre condizionati dalla tecnica/tecnologia di comunicazione. E se
andiamo a studiare in profondità vediamo che se internet non è di certo passivo
come i media di massa, per lo più e per gran parte dei suoi utenti rappresenta un
contesto in cui la superficialità e le reazioni epidermiche prevalgono di gran
lunga sul discorso articolato e consequenziale. In questo senso è più facile
diffondere un NO netto che un sì argomentato. Pensate solamente ai limiti delle
chat, alla semplificazione imposta dai tweet, alla prevalente
autoreferenzialità di tanti wall su facebook.
Dovremmo
chiederci chi siamo noi quando siamo su internet e come cambiano le nostre
reazioni a stimoli che vissuti dal vivo o sui mass media ci farebbero reagire
in maniera radicalmente diversa. Al contrario troppi direttori della
comunicazione si approcciano al pubblico di internet come se avessero davanti
quello passivo della pubblicità o il dibattito colto delle lettere al direttore
nei periodici di qualità. Dimenticano che internet è un ambiente totale dove
ogni messaggio può essere manipolato e ricontestualizzato dagli utenti creativi
(e spesso i migliori esempi di viralità sono proprio i mush-up), mentre
tantissimi altri utenti sono pronti a sostenere la protesta o la buona causa
della giornata per puro spirito gregario e conformista.
Personalmente credo
che tanti che hanno diffuso #boycottBarilla abbiano fatto almeno una volta
nella vita commenti omofobi peggiori di quelli di Guido Barilla. E tuttavia
internet, tra petizioni, ashtag e vecchie catene di sant’antonio digitali (il “fate
girare” appare quasi ogni settimana sulla mia home di facebook), offre infinite
occasioni agli adoratori del politically correct di solleticare la propria
buona coscienza. Speculare all’esaltazione acritica di internet è proprio
questo politically correct che Robert Hughes chiamava “La cultura del piagnisteo”.
Così chi è consapevole di tutto questo finisce per gestire le pr digitali con
una buona dose di ruffianeria verso tutte le principali tematiche del
conformismo digitale. Tuttavia in questo modo si rinunzia a gran parte della
potenza di innovazione, e anche di provocatorietà, che risiede nella
comunicazione sul web.
Facile prevedere
che ora per paura che si scateni un “dagli all’untore” digitale, molte imprese
punteranno a una comunicazione web la più anodina possibile. E l’unica
navigazione che ci offre il gran mare di internet? La comunicazione digitale funziona
solo come sapiente uso dei media sociali per veicolare ipocrisia e buoni
sentimenti? Se il web è libero perché non dovrebbe ospitare opinioni lontane
dalla vulgata buonista purché non discriminatorie? Siamo sicuri allora che il
web sia più tollerante della carta stampata, dove si possono ancora trovare opinioni
divergenti senza il rischio di vedersi boicottare o aggrediti da
teppisti/conformisti/buonisti digitali?
Cosa e chi ci
permette di essere internet? Un essere creativo e primitivo al tempo stesso,
leader e gregario, nobile e bieco, razionale
e fanatico, propositivo o apatico, curioso o indifferente, il tutto all’interno
della stessa persona, nell’arco della stessa giornata. In realtà, ancora poco
sappiamo di questo essere.
Dopotutto per
decenni la comunicazione aziendale ha cercato di parlare a qualcuno che non
conosceva. Con internet questi sconosciuti reagiscono. Possiamo relazionarci a
loro con il silenzio, il vuoto conformismo, con la fuga o l’autoinganno. Oppure
cercando di capire come pensano e reagiscono su internet questi sconosciuti che
noi stessi siamo.
lunedì 9 settembre 2013
Il paradosso della privacy
Bei tempi quando i
paparazzi assediavano i vip e Walter Chiari prendeva a pugni Tazio Secchiaroli.
Era la Dolce Vita, la gente qualunque poteva ancora sognare di diventare famosa
con la televisione e nel frattempo difendere la propria privacy. Dopotutto chi
era interessato a te, tranne i parenti stretti e gli amici, se non eri famoso
né tampoco ricco?
Oggi invece la
vita in Italia è per tanti alquanto amarognola e si è arrivati a un paradosso:
oggi per il sistema informativo globale sono più interessanti i dati delle
persone comuni che le foto rubate dei personaggi celebri.
Questi ultimi
oramai (dalle star globali come Rihanna, con quasi 32 milioni di follower su
Twitter, all’attore di fiction di Raiuno) utilizzano i media sociali per raccontare
il loro privato direttamente ai loro fan e in questa maniera finiscono per
depotenziare l’invadenza e il potere di ricatto dei paparazzi. Cosa ce ne
facciamo di un topless rubato dopo settimane di appostamenti se quell’attrice
appena lo saprà deciderà di postare su Twitter una foto ancora più intrigante? Così
come negli uffici stampa tradizionali regge oramai poco il concetto di “embargo”,
anche nella gestione di un personaggio famoso i media sociali consentono di
gestire in autonomia il flusso di informazioni e di diventare le vere agenzie
di stampa in tempo reale della celebrità, la quale è ben consapevole che per
alimentare il flusso di informazioni deve aggiornare i fan con costanza e su
tutto, comprese le passeggiate e gli incontri privati. Immaginiamo una star a
cena fuori con il suo nuovo partner. Lei nota che alcuni paparazzi aspettano
avidi che escano per ritrarli assieme. E cosa fa la star? Semplicemente prende
il suo smartphone e posta su Twitter le foto di loro due a cena. Di fronte a
tale perfidia multimediale cosa può fare il tapino paparazzo, pur armato di
supermacchina fotografica digitale? Potrà anche continuare ad aspettarli ma
sarà stato bruciato in termini di rapidità e di autenticità delle foto e così
il giorno dopo quotidiani e siti di gossip preferiranno la foto postata
direttamente dalla star.
A parte il caso
dei paparazzi, un media relator oggi lavora molto di più sugli account sociali
del personaggio pubblico (siano essi cantanti, attori o anche politici) che con
i rapporti con i media tradizionali. La comunicazione lavora su un doppio
canale: uno direttamente presidiato dal personaggio, che non può essere
equiparato al vecchio ufficio stampa per una radicale differenza in merito ai tempi
e alle tipologie di contenuti e di relazioni, l’altro frutto delle mediazioni
con i media di massa e con i media sociali curati da terzi. In generale il personaggio
pubblico finisce per costruire un’immagine pubblica e una privacy a uso e
consumo del suo “essere social” che gli consente di depotenziare l’invasività
di chi per mestiere prova a violarne la privacy.
Eppure vi è una
privacy più profonda e recondità, patrimonio di tutti, e che anche il
personaggio pubblico vuole tutelare, violata quotidianamente da noi stessi. Si
tratta della privacy ricostruita attraverso le interazioni del “corpo digitale”,
il quale, come ho detto precedentemente, produce migliaia di informazioni al
mese che finiscono per essere riversate in archivi digitali distribuiti. Per
molti vip i social media rappresentano uno scudo per la loro riservatezza
mentre per le persone comuni essi sono spesso solo uno strumento di
sfruttamento del loro corpo digitale
Tutte quelle
informazioni su persone qualunque, che al paparazzo romano della Dolce Vita “nu
gne potevano fregà de meno”, oggi diventano una nuova miniera di ricchezza, che
cumulate valgono di più di un video erotico, oramai banale, di Paris Hilton o una
vecchia foto di qualche avventuretta dell’avvocato Agnelli (il cui valore era
definito da quanto l’ufficio stampa Fiat decideva di offrire per toglierle
dalla circolazione).
La banalità delle
vite di milioni di individui, aggregata e analizzata da software come Hadoop e
MapReduce, finisce per valere più dei singoli momenti esaltanti o imbarazzanti
di tante celebrità. Ecco dunque spiegato il paradosso: le persone comuni,
grazie alla possibilità di estrarre da esse petabyte di informazioni, anche
estremamente private, producono collettivamente più valore monetizzabile di
quanto ne possa produrre qualsiasi paparazzata di qualche celebrità e quindi
violare la privacy di centinaia di milioni di persone è diventato più
conveniente e utile (e in un certo senso facile) che violare la privacy di
poche celebrità privilegiate.
In questo
scenario non è difficile immaginare un mondo in cui la riservatezza sarà
esclusiva di una classe relativamente piccola di privilegiati globali, capaci,
per influenza e ricchezza, di vivere in un anonimato digitale.
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comunicazione,
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