domenica 28 febbraio 2010

Noi, le sinapsi del biocapitalismo


Come abbiamo detto già altre volte, l'economia della conoscenza può essere interpretata anche sotto l'aspetto della dematerializzazione del processo di produzione e di distribuzione dei beni scambiati. Se si lavora con beni immateriali non c'è più bisogno di concentrare macchine e lavoratori sotto lo stesso tetto, la fabbrica o l'ufficio, immobilizzando spesso enormi capitali. Si può lavorare in remoto, connessi alla rete e produrre on demand, solo quanto vi è domanda ed esattamente quanto richiesto dalla commessa. Ma questo concetto è diventato patrimonio comune e vado oltre.

Forse si coglie meno il fatto che tutti i soggetti inseriti in un contesto socio-economico dove predominano scambi di beni immateriali finiscono per diventare, in maniera cosciente o meno, meccanismi produttivi o almeno veicolatori di senso e di informazione, ovvero delle materie prime dell'economia della conoscenza. Come professionisti titolati o anche solo per pochi minuti al giorno, chiunque finisce per essere parte del ciclo continuo e sincrono di produzione-veicolazione-consumo di senso. In questo senso ognuno di noi è come se fosse una grande, unica sinapsi di un sistema che funziona da sempre in maniera naturale (la società e i suoi valori), da cui recentemente si estrapola valore monetario (economia della conoscenza) attraverso innanzitutto il sistema dei media, sia di massa che sociali, e del quale sempre più distintamentemente emergono raffinati modelli di sfruttamento (biocapitalismo).

Non si tratta dunque di rivangare la contrapposizione marxiana tra mondo della produzione e mondo della riproduzione e neanche di evidenziare le derive autoritarie insite nei media di massa su cui riflettevano i francofortesi. Oggi il vissuto e l'identità vengono messi a valore, e i media sono un sistema di produzione e induzione di senso che consente in molti casi (ma non sempre e non in automatico) di indirizzare il cervello sociale verso la produzione di valori e senso successivamente monetizzabili.

Le aziende vincenti oggi sono quelle che riescono a sfruttare il cervello sociale, ovvero quelle capaci di ottenere valore monetizzabile facendo lavorare per loro (quasi sempre in maniera inconscia) le sinapsi sociali che noi rappresentiamo. La forza dirompente del biocapitalismo non sta (solo) nel brevettare la materia vivente, ma propriamente nello sfruttare relazioni e vissuti che l'interazione tra le persone ha sempre prodotto spontaneamente.

Come gli scienziati da decenni possono produrre insulina di sintesi inducendo la produzione dell'ormone da parte del batterio Escherichia Coli attraverso la tecnica dei DNA ricombinante, così il biocapitalismo utilizza i media per indurre una certa produzione di senso nel cervello sociale.

Vedersi come sinapsi forse non gratifica molto, ma ci permette sempre di ricordarci che di fronte alla pluralità di sollecitazioni che riceviamo noi restiamo liberi di accenderci o spegnerci, al di là della forza dello stimolo ricevuto.


venerdì 19 febbraio 2010

Vengo citato dalla Treccani!

Premetto che odio i blog come diario ipernarcisistico online (la cui unica reazione può essere solo il "chissenefrega") ma questa volta mi fa piacere condividere con i quattro lettori di questo blog uno spunto biografico, ovvero la scoperta che la Treccani cita il sottoscritto nella voce online relativa al Biocapitalismo. Il post cui fa riferimento il blog da cui lo riprende la Treccani è del 2008 e lo trovate cliccando qui .
Ci sono amici che seguono costantemente i miei appunti online. Questa piccola ma prestigiosa soddisfazione la dedico a loro.

lunedì 8 febbraio 2010

Photoshop, o la generazione di massa dei simulacri

Guardate bene questa foto.
Il corpo sinuoso. I muscoli dell'addome definiti ma non eccessivi. La pelle setata, dal colorito omogeneo. Gli slip lievemente abbassati dalla mano sinistra che lasciano intendere la floridezza del pube, speculare alla capigliatura. Labbra carnose e ben definite.La ragazza propone una fisicità invitante.
Ma la testa è come attaccata al collo. Gli occhi sono diversi l'uno dall'altro, per colore, sguardo, dimensione. L'ombelico non c'è.
Questa ragazza non esiste.
E' solo un simulacro creato da un professionista del Photoshop, anche distratto, per altro. Eppure questa immagine come milioni di altre con soggetti simili gira per il web e i media di tutto il mondo. Che siano vere o no non conta. Che cosa sia poi il reale se lo domandano in pochi.
Quella che chiamiamo realtà non serve più. Ovvero serve, ma solo come base per sviluppare simulacri che creeranno altri simulacri che rimanderanno ad altri simulacri. Nell'universo fittizio ma non falso dei simulacri quella che chiamiamo realtà non può essere più usata per garantire una qualche certezza condivisa.
Quale è la vera Kate Moss? La ragazza magra e sbattuta che esce strafatta da una discoteca o il simulacro biondo con la pelle e il corpo digitalmente levigati e uno sguardo assente e magnetico in ogni pixel? Domanda ingenua. D'altra parte con il Photoshop di massa chiunque può creare un simulacro di se stesso e proporlo ai suoi "amici" dei social network mai incontrati dal vivo.
In qualche modo Photoshop ha offerto a tutti la possibilità di rielaborare l'immagine di se stessi, dando una rappresentazione per immagini al proprio desiderio.
E' invalsa l'abitudine di distribuire nel trigesimo della scomparsa le immaginette della persona defunta cui il Photoshop dona un'espressione serena e sorridente. Qualcosa di consolante per i parenti, anche se quel sorriso non è mai avvenuto.