domenica 10 gennaio 2010

Calzolai con le scarpe bucate


Il reddito non riflette il merito, questo ha dimostrato il recente rapporto "A bit rich", redatto dagli economisti di nef (new economics foundation). Se questo vale per il Regno Unito (dove si è sviluppata la ricerca), figuriamoci cosa accade in un paese scarsamente meritocratico come l'Italia. E ancor di più cosa accade in Italia a professioni ben poco definite o considerate come quelle relative al gurgite vasto della comunicazione e del marketing.

Non sono l'unico a ritenere che da alcuni decenni stia avvenendo un grande travaso di ricchezza dalle fasce più povere di molte società verso quelle più benestanti, ma lo studio della new economics foundation evidenzia anche i pregiudizi che ancora incrinano la legittimità delle professioni legate alla comunicazione.

Secondo i calcoli proposti dello studio, il valore distrutto dalle professioni ad alto reddito (banchieri, pubblicitari, commercialisti) è molto maggiore del valore prodotto dalle professioni a basso reddito prese in esame (addetti alla cura dei bambini, addetti alle pulizie negli ospedali, addetti al riciclo dei materiali). Alle accuse degli economisti del nef sui danni provocati dalle attività pubblicitarie si potrebbe rispondere invitandoli (provocatoriamente) a rileggere la Favola delle Api di Bernard de Mandeville. Purtroppo il pregiudizio che tutto quanto è collegato alla comunicazione sia un orpello inutile e parassitario è radicato non solo tra la gente comune ma anche tra prestigiosi economisti di Sua Maestà britannica. Ce n’è da riflettere e allora propongo ai miei lettori tre quesiti:

Come si costruisce nella percezione sociale diffusa il valore, l'utilità, la legittimità di una professione?

Cosa rende un lavoro più prestigioso (e quindi spesso più pagato) di un altro?

Quali sono i fattori che influenzano il riconoscimento sociale di un'attività lavorativa?


Nel precedente post parlavo di un profondo problema di identità e legittimità che attraversano tante professioni legati ad aspetti “soft”, immateriali, relazionali nella catena di produzione del valore. Mi domando perché le organizzazioni professionali, a partire dalla FERPI, non si propongano di sviluppare e realizzare un piano di comunicazione di prodotto nazionale in cui il prodotto non sia altro che le qualità e il valore aggiunto del comunicatore professionale. Non si tratta di parlarsi addosso, tutt'altro. Si tratta semmai di evidenziare tutti gli aspetti del valore aggiunto che una professione multiforme, cangiante e trasversale riesce a trasferire a organizzazioni e imprese.

Qualche tempo fa un mio ex allievo, oggi professionista in un'importante agenzia, mi ricordava: “è proprio vero che il calzolaio finisce per avere le scarpe bucate”. Sarebbe ora non solo di ripararle, e anche di passarci il lucido.

3 commenti:

Giovanni Romito ha detto...

Siamo sempre alla ricerca affannosa di nuovi clienti e occasioni di business, così non riusciamo mai a fermarci un secondo per riflettere e pensare alla nostra professione....ci vorrebbe un attimo di tregua!

Anonimo ha detto...

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